Il 1921, così come l’intero decennio, i cosiddetti Anni Venti «ruggenti» o «folli», consacra definitivamente il jazz come fenomeno di massa e nuova musica sia di intrattenimento eccitante sia di valore artistico: la «jazz era» – per usare una definizione ormai proverbiale del romanziere Francis Scott Fitzgerald – coinvolge dapprima le metropoli nordamericane, in seguito tanto l’immensa provincia statunitense, quanto il resto del pianeta, soprattutto nelle grandi città occidentali (e occidentalizzate).
Sviluppatosi già alla fine del XX secolo, il jass – scritto definitivamente con la doppia zeta solo dai Twenties – per quasi un trentennio prospera nei quartieri proletari di neri e creoli o nelle case di tolleranza nel centro storico a New Orleans (con i protagonisti in tournée spesso coast-to-coast) senza poter essere documentato in quanto cultura orale, privo insomma di forma scritta: musica esistente solo nella condizione performativa audiotattile e in parte improvvisata. Per essere tramandato, il jass necessiterebbe della registrazione fonografica, ma da un lato la già fiorente industria del disco a 78 giri è restia a investire sui «prodotti» di minoranze etniche ancora ghettizzate, dall’altro gli stessi jazzisti sono dubbiosi nell’immortalare ritmi e assolo per il grammofono a tromba, un po’ a causa del livello tecnologico ancora oggettivamente scarso del medium riproduttivo e un po’ perché gelosi della propria arte «estemporanea»: Buddy Bolden, il leggendario cornettista del French Quarter, in primis, sostiene che sarebbero in molti a copiargli lo stile «inimitabile», se i propri brani venissero diffusi in serie con la possibilità di essere riascoltato talis qualis ripetutamente.
La situazione cambia dopo il 1917 per due ragioni: da un lato l’inaspettato successo del disco Livery Stable Blues (Tiger Rag lato B) che il sestetto bianco neworlinese The Original Dixieland Jazz Band registra a New York per la major Victor (futura Rca); dall’altro l’offerta di lavoro a gruppi, cantanti, orchestrine, solisti nei bar, nei locali notturni, nelle sale da ballo dei fiorenti agglomerati industriali negli stati del Nord (Chicago in primis) spinge quasi tutti gli esponenti del sound primigenio (ormai chiamato hot jazz) a lasciare New Orleans e a tuffarsi nell’intricato show business

EXPLOIT
L’exploit del jazz dal 1921 al 1929, fino insomma al crollo di Wall Street, è «supportato» dal proibizionismo (1920-1933) che «istiga» gli americani, in cerca di piaceri a buon mercato, a trasgredire negli speakeasy controllati dai gangster, dove si consumano illegalmente pessimi alcolici al suono delle jazz band che fanno danzare al passo del charleston, del fox-trot, del black bottom. La malavita – soprattutto di origini italiane, polacche, irlandesi, ispaniche – controlla anche i locali eleganti ed esclusivi nella downtown di Chicago, dove si esibiranno i gruppi neri e creoli di King Oliver, Louis Armstrong, Jimmy Noone, dei fratelli Johnny e Baby Dodds, che influenzeranno, nel decennio successivo, i mattatori della swing era (Benny Goodman e Gene Krupa) e del dixieland revival (Bud Freeman e Mezz Mezzrow).
In quel 1921 esce in Francia il primo sassofono Selmer, il celebre Modello 22, mentre in Arkansas nasce la Slingerland Drum Company, quasi ad anticipare simbolicamente la fisionomia acustica del nuovo jazz, ormai ribattezzato «hot» (caldo), attraverso i due strumenti portanti rispettivamente nel solismo e nell’accompagnamento, benché i divi, grosso modo fino al 1925-26, siano ancora legati alla voce, alla cornetta, al trombone, al clarinetto, al banjo e al pianoforte. Intanto, nel 1921, le vendite di dischi negli Usa superano i cento milioni di copie vendute, evidenziando come borghesi e proletari spendano il proprio denaro in 78 giri più che in altre forme di cultura, hobby, divertimento; d’altronde è l’anno dell’esordio fonografico, a proprio nome, di tanti grandi jazzmen, in età compresa fra i 22 e i 27 anni, come i pianisti Fletcher Henderson, James P. Johnson, Clarence Williams, le cantanti Alberta Hunter e Ethel Waters, i gruppi California Ramblers e Ladd’s Black Aces e i parigini Mitchell’s Jazz Kings, oltre l’«anziana» Trixie Smith e il giovanissimo Edith Wilson, rispettivamente 36 e 15 anni. Ma di «esordio» si può parlare anche per Coleman Hawkins, sax tenore, e Bubber Miley, tromba, (16 e 18 anni) nel complessino della blues singer Mamie Smith.

DIREZIONI DIVERSE
Dischi importanti, nel 1921, ce ne sono abbastanza da far capire che la storia del jazz si orienta, fin da subito, in svariate direzioni, a partire dall’uso del pianoforte, grazie al quale iniziano ad apparire i primi capolavori in solo della black music, da Sounds of Africa di Eubie Blake che da un martellante ragtime evolve verso l’imprinting jazz, a The Harlem Strut, Keep Off the Grass e soprattutto Carolina Shout di James P. Johnson, «poeta» dello stile stride, amato da ogni tastierista dell’intero decennio. In ambito discografico inoltre risultano prolifici i dimenticati Bailey’s Lucky Seven, Lucille Hegamin, Johnny Dunn o le ancor oggi apprezzate Mamie Smith e Ethel Waters e ovviamente l’Original Dixieland Jazz Band. A livello teatrale trionfa Shuffle Along, prima rivista interamente nera dal 1909, con Eubie Blake e il cantante Noble Sissle come autori/produttori, totalizzando ben 504 repliche nella sola Broadway e due anni di tournée lungo gli States. Nel cinema, invece, il cortometraggio A Bit of Jazz con il trio del banjoista Fred Van Eps viene ritenuto il primo film sonoro di matrice jazzistica.
L’attività musicale nel 1921 è frenetica ovunque: a Chicago la Friars’ Inn Orchestra, composta da giovani bianchi neworlinesi diventa The New Orleans Rhythm Kings con Paul Mares, George Brunies e Leon Roppolo a suscitare l’ammirazione anche dei colleghi afroamericani. A Detroit il futuro swinger Jean Goldkette fonda il proprio ensemble, come Fletcher Henderson a Harlem dà vita al nucleo della prima big band nella storia. A New Orleans Louis Armstrong lascia il lavoro sugli show boat nella compagnia di Fate Marable per recarsi nella Wind City e unirsi allo Zutty Singleton Trio nel Fernandez Club. A San Francisco, nel Pengale Dancing Pavillon, da giugno a dicembre, trionfa King Oliver con la sua Creole Jazz Band (a cui si aggregherà mesi dopo anche Satchmo), mostrando la popolarità dell’hot jazz persino sulla West Coast; sarà comunque a Chicago che i due cornettisti assieme, entro pochi mesi, faranno faville al Lincoln Garden che proprio nel 1921 cambia dicitura diventando il celeberrimo Sunset Café. E in diverse contee trionfa anche il tour di Ethel Waters con una ricca compagine in un programma di vaudeville dove primeggia addirittura il mitico pugile Jack Johnson (primo nero a vincere il titolo mondiale dei pesi massimi, con Harlem in festa per 15 giorni): si tratta della Black Swan, fondata da Harry H. Pace, con Henderson quale direttore artistico, dando il nome altresì alla prima label afroamericana: Black Swan adotta fra l’altro il soprannome della grande soprano Elisabeth Taylor Greenfield, la prima nera a calcare i palcoscenici operistici. Gli afroamericani, del resto, sono ormai pronti a fondare e dirigere le edizioni musicali a stampa, fin dai tempi dello spiritual e del ragtime, appannaggio degli affaristi bianchi: ecco quindi a New York aprire la Clarence Williams Music Publishing Company dal nome dello stesso pianista, mentre due avvocati ebrei con la Shapiro Bernstein & Co. offrono la prima raccolta consacrata alle radici del black sound con il libro The Gem Blues Song Folio No. 1.
Il 1921 è dunque un anno jazz da incorniciare se si pensa altresì che tra gennaio e dicembre nasceranno grandi solisti come Tal Farlow, Erroll Garner, Tony Scott e soprattutto Jimmy Giuffre, polistrumentista di origini italiane che, dagli esordi cool, al clarinetto e ai sax baritono e tenore, anticiperà persino il free jazz, restando tra i pochi bianchi a suonare una musica avant-garde originalissima, mescolando esperienze sonore da camera, third stream, folk jazz, con almeno un album epocale, dal titolo emblematico Fusion (1961), non a caso, regalatosi per i suoi primi quarant’anni.

«DECADENZA MORALE»
The Twientes, gli anni Venti, il decennio 1921-1930 resta tra i periodi maggiormente fervidi, creativi, immaginifici nella storia del jazz, pur non godendo all’inizio, nell’opinione pubblica statunitense, di una fama benevola. Infatti un periodico assai letto come Ladies’ Home Journal proprio nel 1921 si distingue per una serie di attacchi davvero incredibili, come quando ad esempio scrive: «Il jazz in origine era l’accompagnamento delle danze voodoo, che incoraggiavano i barbari mezzi pazzi a compiere gli atti più vili». Del resto, sempre nel 1921, le esibizioni pubbliche del jazz chiamato «musica di decadenza morale» vengono persino vietate nella città di Zion in Illinois. Dal rotocalco alle riviste di musicologia il passo è breve: ancora nel 1925 – anno in cui escono i capolavori St. Louis Blues di Bessie Smith, Gut Bucket Blues di Louis Armstrong, Sugarfoot Stomp di Fletcher Henderson, The Charleston di James P. Johnson, Cake-Walking Babies from Home di Clarence Williams – sul numero di febbraio di The Etude Music Magazine fondato a Filadelfia da Theodore Presser della Music Teachers National Association, si legge: «Nei suoi sinistri aspetti, il jazz penetra facilmente nelle menti e nei corpi dei giovani, non ancora abbastanza sviluppati da resistere alle tentazioni del diavolo. Può essere la spiegazione dell’enorme tasso di criminalità attuale».
Nulla a che fa con quanto, circa quarant’anni dopo, nel 1964, tre mesi prima di ricevere a Stoccolma il Premio Nobel per la Pace, il reverendo Martin Luther King nel discorso inaugurale del Jazz Festival di Berlino, si esprime in questi termini: «(…) Il Jazz parla di vita, delle difficoltà della vita, e se ti fermi a riflettere un momento, capirai che prende le più dure realtà della vita e le mette in musica, così da poterne trarre nuova speranza e senso di trionfo (…) Non c’è da meravigliarsi che gran parte della ricerca di un’identità tra gli afroamericani sia stata sostenuta da musicisti jazz (…) Molta della potenza del Movimento per i Diritti Civili negli Stati Uniti è nata da questa musica. Essa ha rafforzato il popolo con i suoi ritmi dolci quando il coraggio cominciava a venir meno. Lo ha calmato con le sue ricche armonie quando lo spirito era abbattuto (…) E nella musica, e in particolare in questa categoria detta jazz, c’è un punto di partenza per tutte le cose».
King sa benissimo che la riscossa parte appunto dagli anni Venti, quando la critica progressista e gli stessi musicisti (soprattutto classici ed europei) comprendono che il vero «Re del Jazz» non è il bandleader bianco Paul Whiteman che, pure, ha il merito di lanciare la prima Third Stream Music della storia con l’esecuzione della Rhapsody in Blue di George Gershwin; ma è il nero Louis Armstrong, cantante e trombettista, in grado di conferire all’hot nobiltà e grandezza sotto il profilo estetico, giganteggiando con un senso dello swing che apre le porte al classicismo e alla modernità del jazz medesimo. Con Satchmo il jazz diviene veramente «caldo», benché un suo fervido ammiratore, in quanto di pelle bianca e cultura anglosassone, preferisca battere altre vie: è l’inquieto Bix Beiderbecke alla cornetta, prima vittima sacrificale del sound americano, che muore a soli 28 anni nel 1931 per abuso di alcol.
A concettualizzare la propria musica, sino a condurla a vertici di espressionistica modernità, sono due pianisti-compositori-bandleader: da un lato il pioniere Jelly Roll Morton va oltre, pur restando al contempo riflesso nel passato quasi mitologico del primissimo hot neworlinese; dall’altro il washingtoniano Duke Ellington rappresenta già il futuro, sebbene il mood da lui «inventato» negli anni Venti resti un punto di arrivo e di partenza per tutto il jazz orchestrale fino ai propri esperimenti sinfonici, espansi nei successivi decenni. Il pianismo di Morton segna il passaggio dal ragtime al jazz vero e proprio, mentre quello di Ellington (di nove anni più giovane del collega) resterà per lunghi anni al servizio della big band, salvo rare avventure soliste a rivelare, anche qui, un talento eccezionale nel saper rielaborare le correnti sia del passato sia del presente. Ma sulla tastiera i divi incontrastati lungo i «roaring Twienties» sono altri: nel cuore di Harlem Johnson cede il testimone del piano stride a Fats Waller, che, per sbarcare il lunario, improvvisa colonne sonore sotto il telone in cui si proiettano i drammoni, il western o la slapstick comedy dei film muti hollywoodiani nei tanti sgangherati cinemini, sparsi per l’intera Manhattan.

PIANO VERTICALE
Ma c’è pure un altro giovane, Earl Hines, che subentra al pianoforte negli Hot Five alla pur brava Lil Hardin Armstrong; Hines crea il cosiddetto trumpet style, ispirandosi agli assolo, al vibrato, alla potenza del proprio leader: la modernità del ritmo e la forza dell’imprevisto fanno già presagire lo swing se non addirittura il bebop di Bud Powell e Thelonious Monk. Ma esiste anche uno stile ulteriore, improvvisato spesso nei caffè dotati di un piano verticale o nelle case private, dove lo strumento è caricato sulle spalle degli amici, durante i «rent parties»: è il boogie-woogie che diverrà una moda planetaria solo negli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando, al seguito delle truppe americane, intervengono anche orchestrone come quella di Glenn Miller per far festa nelle zone disinfestate dai nazifascisti. Il boogie pianistico di Meade Lux Lewis o di Pinetop Smith è costruito su una dinamica velocissima, che fa le veci di una big band, dove la mano sinistra tiene le cadenza di una sezione ritmica, mentre la destra compie volute melodiche quasi surrealiste.
Dopo il pianoforte, che costituisce un iter parallelo alla storia jazzistica, arrivando fino alle classicheggianti «solo improvisations» di un Keith Jarrett, il sassofono si guadagna lungo la seconda metà degli anni Venti lo scettro di re degli strumenti jazz, in tutta la sua gamma espressiva. Infatti se le varianti del piano (verticale, mezzacoda, grancoda) riguardano di fatto un esclusivo problema di costi o di ingombro, per il fiato – inventato dal belga Adolphe Sax nel 1840 e fino a quel momento utilizzato soprattutto nelle fanfare militari – si spazia lungo tutto i registri del suono acustico: già il sedicenne Hawkins, abbracciando il sax tenore, inizia a sviluppare un fraseggio con un linguaggio jazzistico adeguato alle possibilità intrinseche allo strumento medesimo. E lo stesso faranno, negli anni Venti, Johnny Hodges e Benny Carter al sax alto (contralto), Harry Carney al baritono, il clarinettista Sidney Bechet al soprano, Frank Trumbauer al tenore in Do e Adrian Rollini al sax contrabbasso: questi ultimi due sassofoni scompaiono negli anni Trenta, ma torneranno con l’avanguardia estrema, grazie soprattutto a Anthony Braxton, in album e concerti di oltre quarant’anni dopo.
La voce jazz – dopo il primo disco black della storia Crazy Blues di Mamie Smith – possiede ancora il volto femminile di Ma Rainey e di un’altra Smith, Bessie, l’Imperatrice del Blues, le quali, con un feeling appunto bluesy, rafforzeranno il mercato dei «race records», edizioni dedicate esclusivamente al target afroamericano, ma ben presto amatissimi dagli intellettuali progressisti sia europei sia bianco-americani: proprio dall’ascolto di Down-Hearted Blues, The Yellow Dog Blues, Cold in Hand Blues, il giovane produttore John Hammond (futuro scopritore di Bob Dylan e Janis Joplin) rilancerà Smith negli anni della Grande Depressione, mentre John e Alan Lomax saranno gli unici etnomusicologi, durante il New Deal roosveltiano, a studiare le origini della storia del blues e del jazz, riscoprendo a loro volta, un genio del jazz rimosso e impoverito quale Jelly Roll Morton: grazie a loro, egli sarà il primo di una lunga serie a raccontare, suonare e cantare al magnetofono, seduto al pianoforte, le avventure del sound afroamericano; i nastri diverranno un libro e di recente otto cd di grande importanza culturale, di cui nel 2019 in Italia viene finalmente stampata la traduzione col titolo Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, «Inventore del Jazz».
Non si può infine dimenticare che proprio dal 1921 – anno ad esempio di titoli come Careless Love, The Sheik of Araby, Wabash Blues, Kitten on the Keys – inizia la realizzazione di quelli che poi verranno chiamati standard, ossia brani originali o composti per il teatro su cui i jazzisti proveranno inedite modalità di riscritture, assoli, perifrasi, accordi, arrangiamenti, swingate; e la lista dei compositori è lunghissima, dagli stessi jazzmen (Ellington, Handy, Morton, Oliver, Waller, Hardin) raffinati songwriter come Irving Berlin, Hoagy Carmichael, Isham Jones, Jerome Kern, Richard Rodgers, Vincent Youmans e naturalmente il più jazzy di tutti, George Gershwin.