Inutile girarci intorno: per noi, il millenovecentodiciassette è non è un anno come gli altri. Quando il titolo appare all’inizio, invadendo spavaldamente lo schermo, non si può non pensare che per tutto un secolo, il 1917 non è stato tanto un anno ma un momento, un luogo e un evento. Per Sam Mendes il 1917 non è né Pietroburgo, né la rivoluzione russa, né l’inizio del Secolo breve. È la storia dei soldati scelti William Schofield e Tom Black (George MacKay e Dean-Charles Chapman), che comincia sotto un albero, in punto sperduto della campagna piccarda, quando i due vengono incaricati di una missione della massima importanza e dalla quale dipende la vita di un intero reggimento, al quale incidentalmente appartiene anche il fratello di uno di loro.
Anche a chi non intrattiene un legame affettivo o culturale con la rivoluzione russa questo buffo scippo può apparire curioso. Ma non si ha troppo tempo per rifletterci perché ne appare subito un altro. Proprio nella città della rivoluzione, Pietroburgo, Alexander Sokurov aveva inventato un modo tutto cinematografico per interrare la rivoluzione e il suo cineasta di riferimento.

NELL’«ARCA RUSSA», filmato nel museo dell’Ermitage con un solo piano sequenza, Sokurov spianava d’un sol colpo di steadycam il cinema dialettico di Ejzenstejn e il suo montaggio intellettuale, con il quale il vecchio genio del cinema sovietico aveva formalizzato la rottura storica imposta dalla volontà del partito di Lenin.
Anche Mendes tenta un film tutto d’un fiato, tutto girato senza montaggio, con un solo lungo movimento di macchina. O almeno così appare, perché in realtà il regista inglese bara, come aveva fatto già il connazionale Hitchcock in Nodo alla gola, che facendo morire le sequenze contro un muro o contro una giacca, nascondeva lo stacco allo spettatore e dava l’illusione della continuità. Anche tenuto conto di questo escamotage, il film resta un exploit per diverse ragioni, ed ha richiesto uno sforzo tecnico e artistico. L’Arca russa, digitale permettendo, si era spinta molto più in là dello spazio teatrale di Nodo alla gola: andando a vagabondare per il dedalo dell’Ermitage, e in qualche occasione uscendone.

NULLA a che vedere con questo film, che si avventura in esterno, con alcune claustrofobiche eccezioni. Ma se da un lato Mendes si è caricato di grandi ostacoli tecnici, dall’altro ha rinunciato a quello che, proprio dalla seconda parte del 1910 (Nascita di una nazione è del 1915) è la grammatica del cinema: il decoupage. Il cui senso profondo è quello della rottura dello spazio e del tempo naturali e la creazione di una continuità cinematografica. Mendes decide di rinunciare a questa grammatica. Forse in questa scelta c’è una semplice reazione allo spezzettamento millimetrico delle scene d’azione a cui il cinema hollywoodiano ci ha abituati. Mendes ha affermato che era il tema a richiedere un’immersione. E che il piano sequenza era la soluzione più giusta per rispondere a questa esigenza. Ed è vero che, se si prende la sequenza che tutti hanno già visto (quella in cui Schoefield attraversa la linea del fronte mentre i suoi commilitoni si lanciano all’assalto tra le bombe e le mitraglie), non si può negare che il risultato sia notevole.

MA SE SI PRENDE il film nel suo insieme quello che rimane è una collezione di quadri, e un grande senso di vacuità. È vero che questa sensazione non manca di coerenza, nella misura in cui dà forma al sentimento che si prova rispetto alla guerra in generale e alla Grande guerra in particolare. Si aggiunga che la macchina da presa, accompagnando i protagonisti, ricrea l’intimità del racconto, che si ispira qui alle memorie del nonno del regista Alfred Hubert Mendès. Buone ragioni sulla carta, ma che sul grande schermo fanno più pensare ad un videogioco che ad un film.