Ecco, oggi, 40 anni fa, inconsapevole attivista ho creato una delle icone del movimento del ’77. 16 febbraio 1977 la Sapienza è occupata, dormo da giorni a terra senza sapere bene perché. Si deve stare qui, è il posto giusto, è la cosa giusta da fare, vogliamo una cultura che apra alla vita, vogliamo una vita che realizzi i desideri, gli ideali, che metta tutti sullo stesso piano, che realizzi uguaglianza e senza chiedere omologazione.

SONO QUI, ISCRITTO A FISICA,
ho scritto uno slogan sul pavimento dell’atrio, per leggerlo devi guardare giù dalle scale, poco efficace, ma è il mio primo slogan, e l’ho scritto con una marzocca da imbianchino: «Borghesia boia, vivi di serietà, muori di noia!», non esprime rivendicazioni, ma è una denuncia al cuore dello stato, è da li che vengono gli «square» contro i quali si scaglia la chitarra ammazzafascisti di Woody Guthrie. Ma è il 16 Febbraio e l’assemblea è infocata, domani viene Lama, il Pci lo manda a rivendicare la sua capacità di controllo dell’opposizione, i gruppi extraparlamentari devono essere ricondotti all’ovile, gli studenti «riaccompagnati» alle famiglie. Delle trattative, forze in campo, lotte di potere non so dire. Per me era uno sfregio all’estetica, alla bellezza del movimento, alla forza dell’autogestione, alla creatività sciatta e cialtrona, ma piena di entusiasmo e potenzialità che mettevamo al mondo vivendo.

QUINDI ASSEMBLEA!
E dal basso della mia inconsapevolezza e della mia statura, dalla marginalità del non essere gruppo o forza costituita: Partecipazione! Lama deve essere fermato, non deve parlare, non deve entrare! Dobbiamo zittirlo, respingerlo annientarlo! Oppure… oppure sbeffeggiarlo, accoglierlo con un tappeto rosso (d’altronde non è comunista?), confonderlo con un contropalco! Contropalco, contropalco! Un sosia di Lama, un Lama non Lama a cui rivolgere tutte le nostre attenzioni, mentre lui povero si sgola cercando di convincerci! Un’idea paradossale e situazionista, assolutamente non contrappositiva e totalmente spiazzante, un’idea geniale. Che nessuno raccolse.

OGGI IMMAGINO QUESTIONI
che all’epoca non mi sfiorarono: chi sarebbe salito su qual contropalco, a quale delle mille sfaccettature del movimento sarebbe toccato ergersi a «contro Lama» e come non trasformare tutto ciò in una palese e perdente contrapposizione? Ma io avevo la mia illuminazione, il contropalco ci sarebbe stato, ci avrei pensato io, potevo farlo! Era già sera e dovevo muovermi deciso. Toccava uscire dall’università, andare a casa, dove avevo una tuta blu perfetta per l’uopo. Sereno presi il 19 e poi il 37, abitavo a Talenti (!) e il più tranquillo possibile entrai in casa, cercai di evitare spiegazioni o commenti e acchiappai quanto mi serviva. Via a fare! Fuori per strada c’era un gran pezzo di polistirolo, l’ideale per le mie necessità! Altro l’avrei trovato frugando in giro, in questo la fiducia della giovinezza verso la benevolenza del mondo non mi si è ancora intaccata.

IL VIAGGIO DI RITORNO FU ANGOSCIOSO.
La città era amorfa, continuava la sua pigra e stolida esistenza, sembrava non sapere che l’università fosse occupata. Sembrava non tenerne conto, la gente andava a casa dal lavoro, usciva a cena, fumava distrattamente, molti imprecavano nel traffico, sembrava non fosse successo nulla. Sembrava?! O era vero!? Forse avevano sgombrato l’università, nel tempo della mia assenza avevano smantellato tutto?! Possibile… E NO! Eccola lì, la bandiera rossa che era stata alzata su un pennone al suo posto.C’è ancora tutto, la città è disinformata, ma noi ci faremo conoscere. Sono arrivato. Un’occupazione è quanto di più vuoto esista. Non c’è controllo degli spazi interni, tutta l’attenzione è ai confini, se ti muovi con naturalezza, e io ne avevo da vendere, vai ovunque e trovi tutto. A me servivano cose piccole, insignificanti, della carta usata, per riempire il corpo, un coltello qualsiasi per tagliare il polistirolo, della tinta, un po’ di spago, due legni.

Solo mi serviva un palco.

VA BENE CHE è UN CONTROPALCO, ma sempre in alto deve stare, altrimenti non può catalizzare gli sguardi, gli slogan, l’attenzione. E poi non so bene dove verrà Lama, quindi dovrei poterlo spostare alla bisogna. Una scala. Una scala come quella che ho visto al primo piano, alla biblioteca, credo. Una magnifica alta e solida scala, con tanto di cestello proteggi addetto, perfetto per tenere in piedi il mio pupazzo! È fatta.

AVETE MAI SCESO UNA SCALA alta minimo due metri e mezzo da una scala di marmo? Ecco, non passa inosservato. Ma questa è un’occupazione e tutti sono occupati a farsi le cose loro, mica a notare uno gnomo che sfida le forze della fisica cercando di non farsi trascinare dalla sua preda. La scala c’è e c’è anche lo spazio e il tempo per lavorarci intorno, non è che ogni notte sia fatta per dormire. Il corpo c’è, ma serve di farlo diventare Lama. Non è che lo frequentassi molto. Sapevo due cose, aveva i capelli corti, era asciutto e fumava la pipa. Sono tre, meglio così. La testa sarebbe stata fatta di un unico pezzo di polistirolo con i capelli a spazzola e pipa inclusa, pochi tratti per gli occhi. I piedi non servono, li copre il cestello, le mani sono carta che sporge, legate sulla balaustra dello stesso.

MA COSI’ E’ UN POVERO PUPAZZO.
Ci vuole di più, deve essere Lama! E chi è Lama per me? Cosa vuole da noi, come si caratterizza, chi lo può sconfiggere. Le scelte che ho fatto quella notte caratterizzano ancora quel misto di pressappochismo, di romanticheria e di sfottò che mi porto oggi: è qui per imporre la Pace sociale, lo può sconfiggere la Lotta di Classe! È così che nascono la medaglia che porta, al «Valore di pace sociale» e la spada di Damocle che gli pende sulla testa (ho fatto il classico!): la Bomba della Lotta di Classe. È mattino, l’alba, incurante della particolarità della giornata, anche oggi si tinge di rosa. Il Contropalco inizia la sua discesa dalla scalea di lettere. Ho trovato un compagno che mi aiuta a non precipitare. Ora è sistemato vicino al viale dove i politici sanno che verrà Lama. Pian piano un drappello di «occupanti» ci si raduna intorno, mancano ancora ore a quando diventerà l’ariete con cui forzare il servizio d’ordine degli operai.

Mancano ancora ore a capire che i padri ci hanno tradito.

L’ALBA DELLE TRONCHESI

È l’alba, Lama sta per arrivare all’università, ieri si diceva di accoglierlo con ogni onore, ribaltando l’affronto al movimento in maniera ludica e spiazzante. La prima idea è stata quella di fare un tappeto rosso, ma nessuno si è mosso per avere il necessario.

HO APPENA FINITO il contropalco e sono elettrico, voglio vedere se c’è qualcosa che si possa fare per dare il segno di quanto consideriamo ostile e rigida questa intrusione.

BRUNO MI HA CHIESTO
come sia stato possibile aver fatto il pupazzo di Lama da solo, visto che tutto veniva fatto insieme e coralmente. Non ho risposto, ma so che bastava non essere in vista per poter passare inosservato, e io in vista non ero davvero: troppo borghese per essere arrabbiato sul serio, troppo normale per stupire, troppo poco ideologico per appartenere ad una cerchia, un cane sciolto, come si vedrà. Insomma è l’alba o poco più, voglio organizzare qualcosa per l’accoglienza e quindi mi avventuro verso l’entrata, lo sguardo cerca appigli alla creatività, ma il tappeto rosso da stendere per accogliere Lama sembra non essere a portata di mano.

SONO IN VISTA DEI CANCELLI
quando vedo arrivare un camioncino, sembra un camion da cantiere, di quelli scoperti con i laterali che si abbassano per caricare meglio. E ne scendono due omoni grossi, operai coi controfiocchi. Mi sembra strano, continuo ad avvicinarmi, sono a portata di voce, e vedo che hanno attrezzi in mano, non pale o picconi, un ferro grande, una tronchese!

CAPISCO,
sono venuti a forzare i cancelli, c’è un’ora per tutto e questa non è certo quella in cui la nostra guardiania è la più vigile.

LA SITUAZIONE SEMBRA PERSA
, ma anche un cane sciolto ha un’etica e quindi li affronto, implume, dicendo che i lucchetti sono per i fascisti e la polizia, che se vogliono entrare troviamo un modo. L’omone mi ricorda il Gigante Grissino di Braccio di Ferro, potente ma non arguto, diciamo. Nel suo schema non c’era nessuno con cui avrebbe dovuto parlare, nessuna interruzione all’atto banale di troncare una catena e far passare il camion.

EPPURE QUI QUALCUNO C’E’,
e sembra preoccupato, dice che le catene sono degli studenti, delle loro moto, che può andare a chiamarli, che certamente torna in pochi minuti per aprire. E’ un discorso appassionato, ripete che i nemici sono altri che il movimento è con i lavoratori che così non è entrare ma irrompere, che…

DALLA SAGOMA DELL’OMONE
vedo staccarsi un’ombra; è un omino, piccolo, scuro, me lo ricordo con l’impermeabile e gli occhiali, certamente con un cappello, l’icona dell’intellettuale organico. Quello che accadde allora può essere paragonato solo alla scena della roulette russa ne Il Cacciatore. De Niro ha ritrovato il suo amico drogato e perso, ma gli parla risvegliandone la coscienza, c’è un barlume nei suoi occhi spenti, si! Nick ha capito chi ha davanti inizia un dialogo, ma la voce dello scommettitore vietnamita lo interrompe, l’assuefazione fa il resto, parte il colpo mortale.

IN QUELL’ALBA NON C’ERA FOLLA
né eccitazione, ma la posta in gioco era altissima; l’omino parla a voce bassa, dice poche sillabe: Taglia.

L’OMONE non ha esitazioni: La catena della mia moto è persa per sempre, con essa è perduto il rapporto tra generazioni.

IL PCI irrompe all’Università.