«L’infinito», di cui quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario della composizione, è forse la poesia più famosa della nostra letteratura: una delle più commentate, tradotte, citate, tanto da essere utilizzata perfino in certi spot pubblicitari. In ambito critico l’idillio leopardiano è stato oggetto di un ininterrotto esercizio esegetico, che ne ha sviscerato capillarmente tutti i risvolti tematici e le vibrazioni stilistiche, con uno zelo che Leopardi, dichiaratamente ostile all’invadenza dell’analisi, non avrebbe forse gradito. Eppure, nonostante il dilagare di studi e commenti, non solo manca un’interpretazione definitiva di certi versi o sintagmi, ma il significato essenziale del testo è ancora per molti aspetti controverso.
Tra i contributi occasionati dal bicentenario, uno dei più acuti e stimolanti è quello offerto da Alberto Folin, già autore di importanti studi leopardiani, nel denso volumetto Il celeste confine Leopardi e il mito moderno dell’infinito (Marsilio «Saggi», pp. 190, € 19,00). Benché solo uno dei sei capitoli del libro sia direttamente incentrato sull’Infinito, anche gli altri cinque sono collegati più o meno strettamente al cuore interpretativo dell’idillio. Le direttrici lungo le quali si snoda la ricerca sono sostanzialmente due: la riflessione leopardiana sul mito, indagata nel contesto del neoclassicismo e del romanticismo europei; e l’apprendistato poetico e filosofico di Leopardi, che nel 1819 si trasforma, quasi ex abrupto, da giovane filologo-erudito in poeta inarrivabile. Ma in che rapporto si pone la singolare meditazione di Leopardi sul mito con il suo percorso poetico? Come illustra Folin, tra poesia e mito esiste in Leopardi «un nesso inscindibile»: «dove non c’è mito non c’è poesia, ma solo sentimento (ridotto a mito individuale)», sembra dire Leopardi. Diversamente dagli illuministi francesi, secondo i quali il recupero del mito andava subordinato a istanze etico-politiche, e dai neoclassici italiani, che riutilizzarono la mitologia quasi esclusivamente in forma decorativa, Leopardi, in ideale sintonia con i grandi romantici tedeschi, vede nel mito «il linguaggio privilegiato della verità dell’origine».
La stessa modalità di pensiero leopardiana sembra rifarsi al linguaggio del mito (omologo, nel poeta di Recanati, a quello della natura), dato che, nei vertici più alti della speculazione, egli non si affida ai concetti ma alle immagini (in un capitolo incentrato sullo Zibaldone, Folin parla, con formula suggestiva, di «pensiero non filosofico»). A Leopardi non interessa tanto il contenuto narrativo della mitologia, quanto la sua forma, il suo «come» e il suo «perché», sintetizza Folin. Discorrendo del mito, il poeta giunge spesso a esiti sorprendenti, come quando, in un pensiero dello Zibaldone del 19 settembre 1823, sostiene che certe analogie tra i miti latini e quelli greci non possono essere il frutto di una semplice ripresa imitativa ma deriverebbero da un comune fondale archetipico, un sostrato di «opinioni popolari», un «tronco domestico», come lo chiama Leopardi, prefigurando la nozione junghiana di inconscio collettivo.
Un altro passo dello Zibaldone su cui Folin concentra la sua attenzione è quello, molto citato ma forse non sempre adeguatamente compreso, della «conversione» filosofica, nel quale Leopardi afferma che «la mutazione totale» in lui, cioè «il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè nel 1819». Con questa radicale conversione Leopardi passa dal comporre poesie di tipo immaginativo, alla maniera degli antichi, a scrivere poesie sentimentali, cioè filosofiche. Ma L’infinito – scritto proprio nell’anno della «mutazione» – va ascritto al periodo «immaginativo» della storia poetica di Leopardi, o a quello «sentimentale»? In controtendenza con la tradizione critica dominante, Folin ritiene che l’idillio non sia espressione della poetica sentimentale dei moderni, ma andrebbe invece collocato «sul crinale della mutazione, mentre sarebbe la Canzone Ad Angelo Mai (scritta all’inizio del 1820, ma da Leopardi forse vissuta nel ricordo come appartenente al ’19)» il primo, vero esempio leopardiano di poesia sentimentale. Del resto, come la critica ha più volte rilevato, L’infinito è l’unico componimento leopardiano che non abbia una conclusione tragica, laddove il naufragio può essere ancora associato alla dolcezza; mentre invece nel finale dell’Angelo Mai il sentimento doloroso della vanità delle cose non lascia scampo: «or che resta? / Il certo e solo / veder che tutto è vano altro che il duolo».
La desolazione nichilistica del mondo moderno che dilaga nell’Angelo Mai, lascia invece ancora qualche margine di dolcezza metafisica nel paesaggio mentale dell’Infinito (il saggio di Folin prende il titolo da una variante, poi sostituita da Leopardi con «ultimo orizzonte»: «celeste confine» è un sintagma che sembra aprire una prospettiva metafisica, se si intende «celeste» come sinonimo di «divino»). Ciò può avvenire perché lo sguardo (grazie al filtro della siepe) non è ancora totalmente annichilito da quella che nella Canzone Alla Primavera, o delle favole antiche Leopardi chiamerà l’«atra face del ver» (l’oscura fiaccola della verità). L’esclusione del «guardo» lascia spazio alla reminiscenza del mito, nella sua forma tipicamente moderna: il mito del nulla. Che Leopardi assimila all’infinito.