Luglio 1943. «Partii da Ponte il giorno 16, venerdì, alle 11,30 circa. (…) Deciso ad affrontare con tutti i comodi un viaggio che indovinavo già scomodissimo, contro la mia abitudine alla terza, presi un biglietto di prima Ponte-Roma. (…) Giungo a Milano con non molto ritardo”. Sabato 17: “la mattina alle 7 mi rialzo (vado a letto, ma la notte – plenilunio – lungo allarme con spari, finito circa alle cinque. Qualche tempo in rifugio, frastornato da una luce cruda negli occhi (…) e presto mi incammino con la mia valigia, l’impermeabile, e un cappello di feltro inglese pesante, già di mio padre, alla stazione. (…) Arrivo, dunque, con una sete tormentosa a Roma, e tutto intriso di sudore».

La notte sulla domenica 18, in albergo, «all’una allarme che dura fin verso le due o le tre». Lunedì 19: «Mi sveglio presto, mi rado, mi vesto ed esco. Alle nove sono davanti al palazzone di via XX Settembre». Questa la meta del viaggio, la Commissione centrale dei Danni di guerra, al Ministero delle Finanze, che Leonardo Borgese – pittore, scrittore, critico d’arte, – allora trentanovenne, racconta in poche quanto perfette pagine di lineare nitore «Il viaggio del Milione» che Archinto pubblica, unitamente a una «Lettera al padre», in «Finalmente tutto finì», con una prefazione di Claudio Magris. Ho elencato le ore, da un giorno all’altro, e riportato gli orari delle partenze e degli arrivi con l’intento di comunicare al lettore il peculiare ritmo di uno scritto che, nell’apparente dimesso modo di un semplice resoconto o di privato promemoria, offre una minuta rappresentazione della quotidianità di guerra quale si viveva nelle città italiane sotto i bombardamenti nel fatale luglio del 1943. Rappresentazione che non si sofferma a descrivere i paesaggi, le campagne e i borghi che via via scorrono nello schermo del finestrino. Sono invece i viaggiatori dello scompartimento che vengono descritti: «una vistosa donna platinata col naso da civetta»; «l’accademico d’Italia, col suo distintivo blu, nel suo posto prenotato di fronte a me… dorme e ridorme, perlopiù a bocca aperta». E sono i discorsi che vengono sinteticamente allusi: «vertono cautamente, ma pessimisticamente sulla guerra. (…) So in treno che la notte han bombardato Reggio, Varese, Pavia, e che so altro». Le notizie di città devastate, enumerate soltanto: «Messina, completamente distrutta (…) Catania spazzata via a fette intere dai bombardamenti navali». Nelle città per le strade, negli uffici, nelle case la presenza d’una umanità spaesata, attonita, ferma in un’attesa che si consuma senza risconti, astratta. A Milano «il ‘Corriere’ è stranamente deserto (…) alcuni come Montanelli, girano addirittura tremebondi per la redazione».

A Roma una telefonata a Cesare Zavattini che «sta lontanissimo ed è irraggiungibile data la scarsità, specie domenicale, dei servizi di autobus». Una umanità che si stipa ad ogni allarme nei rifugi, «donnette stese su poltrone a sdraio, mamme cicciose e bimbi che piangono. Si fuma e si gioca a carte sotto una luce elettrica accecante». Borgese, quella mattina di lunedì 19 al Ministero delle Finanze, mentre attende su una poltrona è colto da un nuovo allarme: «alle undici in punto suonano le sirene (…) scendiamo per scale e scaloni e infiniti immensi corridoi verso il ricovero. Ma nessuno dei numerosissimi impiegati che si affrettano sa dove sia». È iniziato il bombardamento del quartiere di San Lorenzo, tra la stazione Termini e il cimitero del Verano: «traverso uno spazio aperto fra scoppi e vedo contro il cielo azzuro sette o otto aeroplani». Tale il vitreo, indelebile fotogramma che di quel tragico giorno ci affida Borgese.