Sono 130 i prigionieri politici in sciopero della fame da sei settimane nel carcere di massima sicurezza di Tora, simbolo della brutalità del regime egiziano. Protestano per le condizioni di vita, al limite della sopravvivenza, a cui sono costretti. Dal 17 giugno chiedono la fine di trattamenti disumani e l’accesso a regolari visite familiari.

Alcuni di loro, imprigionati da oltre due anni, non hanno mai più visto la famiglia o un legale. La risposta del Cairo, scrive Amnesty International, è la rappresaglia: picchiati, sottoposti a elettrochoc, privati dello zucchero, alcuni trasferiti in celle speciali. Per convincerli a desistere.

La maggior parte, aggiunge Amnesty, sono scomparsi per un periodo compreso tra 11 e 150 giorni: con gli arresti mai notificati alle famiglie, sono «riapparsi» di fronte ai tribunali dell’intelligence e intercettati per pochi secondi dagli occhi dei familiari, accorsi per vederseli portare via di nuovo.

Un fatto non nuovo, riemerso nei giorni della morte dell’ex presidente Morsi, rapidamente archiviata. La carenza cronica di cure mediche è denunciata da anni dalle ong per i diritti umani che con difficoltà tengono il conto dei morti in custodia.

Dopo la morte di Morsi, l’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr) ha chiesto «un urgente esame dei casi simili»: prigionieri isolati, a cui sono negate da mesi o anni la visita dei familiari e cure mediche adeguate. Già nel marzo 2016 l’Eipr parlava di «deterioramento senza precedenti» delle condizioni di prigionia, «medievali, con maltrattamenti, torture, deprivazione di cibo e cure».

Secondo il centro Nadeem, nei primi sei mesi del 2019 in 30 sono morti in custodia. Celle sovraffollate, sporche, infestate da insetti, con temperature che d’estate raggiungono i 40 gradi: lo sciopero della fame è l’ultimo mezzo di lotta per chi scompare in una cella.