C’è una ragione fondamentale di opposizione alla Tav in Val di Susa, che emerge poco nella discussione, mai nelle argomentazioni dei suoi intrepidi fautori. Una ragione che si aggiunge alla sua inutilità, alla devastazione ambientale che provocherebbe, alla violenza contro una intera comunità. Ciò che si dimentica di ricordare agli italiani è che tale grande opera non si cumula ad altre pur così visibilmente necessarie e vitali per il nostro paese, ma le esclude, ne costituisce una alternativa permanente e probabilmente definitiva. Se si investono decine di miliardi di euro per realizzare quest’opera, diventerà sommamente difficile che lo stato metta a disposizione – in una fase di ristrettezze finanziarie che si annuncia assai lunga – altre risorse per un’altra “grande opera”, che appare di primissimo ordine per l’avvenire dell’Italia: la messa in sicurezza del nostro territorio.
Si tratta di due strade opposte e nettamente divaricate: o si costruisce il grande traforo e la linea Torino Lione, o si investe per arginare fiumi e torrenti, per riparare frane e abitati, per ricostruire strade, attivare o ripristinare linee ferroviarie leggere, creare scuole e ospedali nei piccoli centri. Questa “grande opera” affidata all’azione molecolare di mille piccole opere appare oggi come una via drammaticamente obbligata per alcune ragioni molto semplici.
Come già sapevano gli ingegneri idraulici dell’800, il nostro Appennino imprime un carattere sistemico al rapporto montagna-pianura della Penisola. I vasti processi erosivi che lo segnano costantemente si riversano a valle e vanno a interessare, in maniera molecolare, ma talora violenta, i territori delle piane e delle coste. Alluvioni, frane, smottamenti che devastano sistematicamente l’Italia hanno prevalente origine da li. Perciò l’intera sicurezza del territorio nazionale dipende dal mantenimento di tale equilibrio. Ma un tempo la vasta area, tra le montagne e le pianure litoranee, era controllata dal lavoro quotidiano delle famiglie contadine. Un grande filtro proteggeva le aree a valle. Ora non più. Mentre le campagne interne, i borghi, le cittadine si vanno spopolando lentamente andando a intasare le aree litoranee, dove ormai si addensa poco meno del 70% della popolazione nazionale. Una grande minaccia incombe dunque sugli abitati, le imprese, le infrastrutture che si ammassano in un’area sempre più ristretta e cementificata: alluvioni potenzialmente sempre più distruttive. Ebbene, negli ultimi tempi, si è lavorato a una nuova strategia per rompere tale drammatico squilibrio economico, demografico e territoriale che segna l’Italia di oggi. Fabrizio Barca, quando era ministro, ha messo in piedi un vasto progetto per il recupero delle aree interne, passato ora in eredità al ministro per la Coesione Territoriale, Carlo Trigilia. Si tratta di un piano – alla cui elaborazione collaborano tecnici, sindaci, studiosi di varia provenienza – che non si esaurisce in un qualche cantiere destinato a costruire una singola grande opera. E’ un progetto, che incorpora in sé un modo diverso di protezione del territorio, affidata in minima parte al lavoro ingegneristico di riparazione, di più a rigenerare antiche economie e a crearne di nuove: attraverso l’agricoltura di qualità fondata sulla biodiversità agricola, agli allevamenti avicoli, allo sfruttamento delle acque interne, alla selvicoltura di pregio, al turismo, alla valorizzazione dei beni archeologici e culturali dei borghi antichi. Il territorio viene protetto, il paesaggio mantenuto attraverso il ripristino di antiche e nuove pratiche produttive in grado di attrarre popolazione (i nostri giovani e quelli che fuggono dai paesi dell’Africa) ridando o conservando i servizi nei piccoli centri, riempiendo di vita vasti territori oggi in via di definitivo abbandono.
Dunque, com’è evidente, si tratta di un progetto che, per visione e modo di procedere, si distacca nettamente dal modello di sviluppo economico tardo-novecentesco rappresentato dalla Tav. Non è solo una diversa concezione dell’economia, ma un nuovo modo di procedere dell’azione politica, che non impone dall’alto piani di modificazione rilevanti dell’assetto ambientale, ma entra in un rapporto di cooperazione con le popolazioni Sono due strade opposte e culturalmente inconciliabili. Ma proprio questo nodo potrebbe costituire un banco di prova per fare chiarezza all’interno del Pd. E’ sempre più evidente che i dirigenti favorevoli al progetto della Tav in Val di Susa nel migliore dei casi sono legati a un vecchio modello di sviluppo e hanno una visione autoritaria del rapporto tra stato e popolazioni. Nel peggiore, ovviamente, sono collusi e in affari con il mondo delle imprese. Ecco, dunque, un nodo strategico su cui confrontare due opposte visioni del nostro paese, che tagliano in profondità anche alcuni nodi essenziali di moralità civile.
Quante realtà locali, politiche e amministrative, verrebbero bonificate nelle loro pratiche affaristiche se vincesse una linea di opposizione alla Tav? Il Pd si aprirebbe per questa via a centinaia di migliaia di giovani, che si oppongono a quell’opera. Quale attrattiva offre infatti all’immaginario giovanile la Tav? E che cosa, invece, può rappresentare il progetto di rinascita delle aree interne, che significa nuovi posti di lavoro, protezione dell’ambiente e del paesaggio, accoglienza dei disperati, una nuova dimensione di vivere e operare con spirito di cooperazione su un territorio che non replica le dinamiche caotiche e degradate delle nostre realtà urbane? Senza dire dello sperpero di miliardi di euro per una singola opera, un’opposizione di fatto alla protezione dei nostri habitat, militare contro la sicurezza presente e futura del territorio nazionale.
La crisi, dunque, è oggi un’occasione di pulizia intellettuale e di onestà politica. E’ finita l’epoca dei minestroni elettoralistici, grazie ai quali il discorso pubblico può essere infarcito di tutto e del suo contrario. Occorre smascherare sistematicamente chi inganna l’opinione pubblica mettendo insieme obiettivi inconciliabili. E’ evidente che chi caldeggia l’acquisto degli F-35 lavora per sottrarre risorse alla scuola e all’Università e non è più autorizzato a parlare di “futuro” e dell'”avvenire dei nostri giovani”. Cosi come chi è favorevole al nostro “impegno di pace” in Afghanistan – che ci costa diverse decine di milioni di euro al mese – non può affermare di essere favorevole al potenziamento della sanità pubblica e al pagamento di pensioni decenti per i nostri vecchi. Questo è il terreno su cui i dirigenti del Pd dovrebbero confrontarsi e dividere.
Per nostra fortuna, la sinistra, in Italia, non finisce col Pd. Di sicuro, la sua parte culturalmente più alta e più avanzata, più onesta, sta fuori di esso. Questa parte, com’è noto, ha trovato di recente una forma organizzata nell’iniziativa di Rodotà e Landini (e di altri che non cito per brevità) La via maestra, che mette al centro della sua azione la difesa della Costituzione e la sua attuazione. Il 12 ottobre, a Roma, essa darà prova della sua forza con una grande manifestazione nazionale. Contrariamente a quanto ha fatto Angelo D’Orsi, su Micromega il 27 settembre, io esorto a partecipare. Si tratta di un gesto politico importante. Ma le lucide osservazioni di D’Orsi sono da condividere. Certamente, la dirigenza di Rodotà e Landini fornisce garanzia contro tanti errori del passato. E la rimessa al centro della Costituzione, interpretabile come un progetto politico di società più giusta e avanzata, costituisce un forte collante, non solo ideale, per tenere insieme il multiforme e disperso arcipelago della sinistra. Ma è evidente che la manifestazione del 12 deve essere un punto di partenza, altrimenti l’esperimento naufragherà, com’è successo con il movimento dei girotondi e altre consimili esperienze. Di sicuro, La via maestra può svolgere un’importante azione di elaborazione e di influenza culturale. Quella pratica oggi abbandonata dai partiti, ormai immersi in un pragmatismo opaco e senza orizzonti. E in questa elaborazione dovrebbe trovare certamente un posto la questione territoriale e ambientale. Non c’è in Europa e forse nel mondo, un paese storicamente così dipendente, come l’Italia, dalla salute dei suoi habitat, eppure popolato da cittadini e classi dirigenti così clamorosamente dimentichi di tale drammatica originalità. La cultura ambientale e territoriale degli italiani è a livelli infimi. Ma senza obiettivi anche ravvicinati non si va lontano, non si costruisce il consenso largo e radicato di cui c’è bisogno. Impariamo dagli avversari. Il paese subisce oggi una delle più gravi catastrofi della sua storia: milioni di persone senza lavoro. Approfittiamone per imporre una tassa di scopo e finanziare il reddito di cittadinanza. Creiamo un nuovo pilastro del welfare, attuiamo in questo modo la Costituzione, percorriamo l’unica strada che oggi potrebbe restituire in tempi brevi, a milioni di uomini e donne, ai nostri giovani, la perduta dignità del vivere.

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