I difetti e le mancanze di questa riforma costituzionale sono tali che anche i sostenitori del sì a volte ricorrono all’argomento definitivo: in fondo sono quasi quarant’anni (dalla prima commissione bicamerale per le riforme) che si propone la riduzione dei parlamentari. È vero, ma mai era stata proposta come un taglio lineare senza altri interventi sull’impianto istituzionale.
È vero anche che per la riduzione si è schierata in passato la sinistra, soprattutto dopo che le assemblee (legislative) regionali hanno ampliato e spostato verso il basso la rappresentanza. Ma la proposta (Ferrara, Rodotà, 1985) anche in quel caso era di sistema e soprattutto prevedeva il monocameralismo. Una sola camera di 600 deputati eletta con una legge proporzionale non avrebbe tutti i problemi in termini di penalizzazione della rappresentanza territoriale e politica che ha invece la riforma dei 5 Stelle.
Riforma, quest’ultima, comparsa per la prima volta in un documento ufficiale nella nota di aggiornamento al Def del settembre 2018 (governo gialloverde Conte-Salvini) legata però a doppio filo con l’introduzione della «democrazia diretta». Velocissimo l’iter di approvazione: dalla prima lettura della prima deliberazione (febbraio 2019 al senato) alla seconda lettura della seconda deliberazione (ottobre 2019 alla camera) sono passati appena otto mesi.
Difficile trovare precedenti così rapidi di riforme costituzionali negli ultimi venti anni. Persino l’abolizione della pena di morte nel 2007 e l’introduzione della parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nel 2003 sono state più meditate. L’unica modifica costituzionale che è stata approvata a questa velocità (anche a maggioranza qualificata) è stata l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione nel 2012. Quasi tutti se ne sono pentiti.