Nemmeno nei migliori sogni di Mariano Rajoy e dei suoi sgherri che un anno fa, 1° ottobre 2017, prendevano a selvagge bastonate migliaia di votanti nel referendum “illegale” per l’indipendenza catalana si sarebbe potuta materializzare una divisione così insanabile nel fronte indipendentista come quella inscenata in questi giorni.

Ieri Barcellona e molte altre città catalane si sono riempite di manifestazioni al grido di «voteremo, vinceremo», «fuori le forze d’occupazione», «né dimenticare, né perdonare», e soprattutto «libertà per i prigionieri politici». Ma se tutte le anime indipendentiste rivendicano l’1 ottobre e il suo forte simbolismo come emblematico di una lotta che ormai tutti sanno essere improba se non impossibile, i partiti sono ormai praticamente ai ferri corti.

La Cup chiede la testa del ministro degli interni catalano, Miquel Buch, per le cariche di sabato della polizia catalana (Mossos) contro gli indipendentisti che protestavano energicamente contro la manifestazione strumentale di polizia e guardia civil. E attacca il governo catalano, accusandolo di «aver frustrato la vittoria» nel referendum di un anno fa perché dopo la dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre non ha applicato nessuna misura per renderla effettiva. Ed è vero che dopo sei mesi di 155, nella nuova stagione politica il governo catalano (appoggiato da un PdCat e una Esquerra Republicana lontanissime in strategie e obiettivi) si affida a molte parole retoriche (il presidente Torra ne è maestro: ieri celebrava a Sant Julià de Ramis, vicino a Girona, dove avrebbe dovuto votare l’ex president Puigdemont, che poi fu costretto dalle cariche spagnole a votare altrove), ma a pochi gesti concreti. Il Parlamento è chiuso da luglio perché Esquerra e PdCat non riescono a mettersi d’accordo neppure sull’applicazione di una decisione giudiziale sulla sospensione dei deputati indagati per ribellione. Torra cerca di salvare le forme dicendo che i «Comitati di difesa della repubblica» fanno bene a fare pressione, ma la Cup non se lo beve ed è sul piede di guerra.

Ma anche Pp e Ciudadanos sono sulle barricate: Pablo Casado chiede di rendere fuorilegge PdCat, Esquerra e Cup e di applicare di nuovo il 155, mentre Albert Rivera accusa Torra di alimentare «la violenza dei commandos separatisti». I socialisti cercano di abbassare i toni, e dicono che quello di ieri è un giorno «di triste memoria», nelle parole della portavoce del governo, la ministra Isabel Celaá. «Quel giorno ha reso visibile la frattura nella società catalana». Ma assicura che oggi i socialisti hanno aperto «un corridoio politico» di interlocuzione col governo catalano (i cui voti a Madrid sono indispensabili a Sánchez).

Ma inspiegabilmente nessuno ha ancora chiesto scusa per la violenza dell’anno scorso (costata peraltro 87 milioni di euro), cosa che in primis viene rinfacciata al governo socialista dalla portavoce del governo catalano, Elsa Artadi, del PdCat, e dalla repubblicana Marta Vilalta. Podemos ha rivendicato la difesa del diritto a votare, anche se in un referendum con regole accordate (non come un anno fa): e sottolinea che molti attivisti erano in scuole e centri di voto per difendere la consultazione. La sindaca di Barcellona Ada Colau ha ricordato che il comune si è costituito parte civile nei processi di tutte le vittime dei manganelli della polizia. In mezzo alla violenza, chiedeva (inascoltata) al governo spagnolo di sospendere le operazioni di polizia.

Tra blocchi di strade e ferrovie, scioperi degli studenti nelle università catalane e una serie di manifestazioni, la più importante è stata quella delle 18.30 a Barcellona chiamata «Recuperiamo il primo ottobre»: in testa 150 simboliche urne partite da piazza Catalunya e consegnate a Torra davanti al Parlament catalano.