A un anno dall’alluvione in Romagna a finire sott’acqua è stato il Veneto. Eppure, di fronte alle piogge «di un’intensità che mai si è vista nella storia», come ha detto ieri mattina il presidente della Regione Luca Zaia a margine di un punto stampa di aggiornamento presso la sede della Protezione Civile Regionale, lo stesso esponente della Lega, che guida la Regione dal 2010, non può fare a meno di strizzare l’occhio ai negazionisti: «Il cambiamento climatico, che sia imposto dall’uomo con i suoi comportamenti o che sia dovuto ai movimenti che ci sono in natura e che sono costanti, ci impone di rivedere il modello perché abbiamo capito che le bombe d’acqua sono il vero problema, noi abbiamo avuto degli acquazzoni equatoriali ai quali non siamo abituati, delle grandi precipitazioni con valori paurosi e poi magari territori a qualche chilometro che avevano solo pioggerellina o nulla» ha detto l’ex ministro dell’Agricoltura a Radio 24.

E mentre si continua a parlare di «maltempo», la realtà è che città e cittadine sono finite sott’acqua nonostante gli interventi importanti realizzati a partire dal 2010, che in particolare aveva visto la città di Vicenza invasa dalle acque dei fiumi Bacchiglione e Retrone. Sta cambiando rapidamente il contesto di riferimento, e anche se ieri Zaia ha difeso le opere di difesa idraulica, tra cui le vasche di laminazione (cioè opere idrauliche progettate per immagazzinare temporaneamente l’acqua in eccesso durante forti precipitazioni), i 229 mm di acqua caduti in 6 ore, un evento che secondo l’Università di Padova ha un tempo di ritorno di 300 anni, impongono senz’altro di ripensare la gestione del territorio. Non per tutti, però. Per Zaia, quel che «resta da fare sicuramente ancora opere». Come in ogni emergenza che si rispetti, non è mancato il richiamo a «un piano Marshall a tutela del dissesto idrogeologico», richiamando l’epica degli investimenti per la ricostruzione del Paese dopo la Seconda guerra mondiale.

Prima di andare avanti, Zaia potrebbe però leggere il Piano appena approvato dall’Emilia-Romagna, che apre alle tracimazioni controllate, mentre lui rivendica l’esigenza di rafforzare ulteriormente gli argini, che secondo Coldiretti sarebbe sotto attacco da parte delle immancabili nutrie. È un disco (rotto) che si ripete, un anno dopo. Servono, probabilmente, nuovi strumenti di adattamento, a fronte, ad esempio, dei 40 millimetri d’acqua che sono caduti in 30 minuti ad Asolo o degli oltre 80 in meno di 90 minuti a Castelfranco Veneto. «I modelli previsionali hanno funzionato. Il problema è che siamo in presenza di un fenomeno nuovo» ha puntualizzato Zaia. Sulla teoria è preparato, quindi. «Ho chiesto a Curcio, il capo di Dipartimento della Protezione Civile un sopraluogo, anche ai fini della quantificazione dei danni» ha spiegato Zaia, precisando che nella notte la Protezione civile della Regione aveva raccolto 2400 richieste di intervento e sottolineando di aver chiesto al governo di decretare lo stato d’emergenza.

Perché se è vero che a differenza del maggio 2023 in Emilia-Romagna, in Veneto non ci sono né feriti, né perdite di vite umane, ed «è la parte più importante di questa vicenda» come ha detto Zaia, lo è anche che consistenti allagamenti hanno coinvolto i centri abitati dei Comuni di Asolo e Castelfranco Veneto, e ancora Quarto d’Altino, Altivole, Casier, Fonte e Mogliano Veneto, che è finito sott’acqua il piano interrato dell’ospedale di Camposampiero, per la rottura arginale del Muson dei Sassi, e che anche una galleria della nuova Superstrada Pedemontana Veneta è stata allagata. Dove si è costruito negli ultimi anni e perché si è continuato a costruire nella seconda Regione in Italia per consumo di suolo (11,88% a fine 2022, più 739 ettari nell’ultimo anno, secondo l’ISPRA), dopo la Lombardia? Perché si costruisce, e tanto, anche nelle aree allagabili a seguito di eventi con tempo di ritorno tra 20 e 50 anni, quelle con una pericolosità idraulica elevata?

Se lo stanno chiedendo, ad esempio, i cittadini di Padova, che è il primo Comune del Veneto per consumo di suolo: quasi il 50% della superficie è impermeabilizzata e ancora l’amministrazione comunale immagina di autorizzare nuovi interventi che trasformano terreni agricoli, come quello su 15 ettari di campi che potrebbero diventare il nuovo centro logistico di un gigante della grande distribuzione, Alì.

Lo ricorda al manifesto Matteo Sandon, titolare di un’azienda agricola urbana nell’area del Basso Isonzo, a ridosso del fiume Bacchiglione: il 16 maggio ha dovuto chiedere in prestito un kayak per raggiungere i campi e contare i danni, «anche se il problema principale è che la città è finita sott’acqua, nonostante le opere di mitigazione realizzate e rivendicate da chi governa».