Gli aborigeni, oppressi ed emarginati dalla Storia, conquistano la ribalta della 60/a Biennale d’arte con il Leone d’oro al padiglione dell’Australia, «abitato» dal titanico albero genealogico disegnato a mano da Archie Moore per rintracciare le radici comuni, negate eppure fondative di un paese. Le First Nations sono impresse in un cielo nero rischiarato dal bianco del gessetto, intessuto di nomi di avi, conoscenti o sconosciuti, attraverso una cartografia temporale che affonda in 65mila anni di storia e 2500 generazioni, familiari ed estranee (quell’essere Stranieri ovunque, leit motiv di questa edizione).
Ci sono diversi buchi nella costellazione affettiva e comunitaria dell’artista: interruzioni di una memoria impossibile da ricostruire o ritrovare e volutamente segnalate. Archie Moore ha composto una mappa monumentale a partire da sé, nel segno però di una riappropriazione collettiva perché, mai come in questo caso, il personale è profondamente politico. Nel suo memoriale che galleggia sull’acqua, presenta al centro della sala una «scultura» composta da una miriade di documenti impilati, i cui testi, in alcuni punti, sono barrati da linee nere. I nomi oscurati sono gli stessi che compaiono negli atti ufficiali delle inchieste sulle centinaia di morti di indigeni in carcere: sebbene gli australiani delle First Nations costituiscano solo il 3,8% della popolazione, rappresentano il 33% di quella carceraria, con un alto tasso di decessi in età giovanile durante la detenzione.

Il padiglioe Australia, Leone d’oro con l’artista Archie Moore (foto di Andrea Rossetti), courtesy dell’artista e The Commercial

IN QUESTA GEOGRAFIA rimeditata che sposta i confini nell’emisfero australe, c’è anche la Nuova Zelanda sul podio: è il collettivo femminile Maori Mataaho, migliore partecipazione alla mostra centrale del curatore. La loro installazione avvolge l’entrata delle Corderie con una selva di cinghie a forma di culla, riprendendo tecniche ancestrali tramandate per via matrilineare, mentre poco più in là l’anglonigeriano Yinka Shonibare catapulta in uno spazio distopico il suo solitario pellegrino, esiliato da tutte le narrazioni possibili sia coloniali che post-coloniali.
Il viaggio trasformativo che esplora le resistenze culturali e il «ritorno del soggetto» (per dirla con Stuart Hall), messo in scena sul palcoscenico della 60/a Biennale arte di Venezia dal cantore dei sud globali del mondo, il brasiliano Adriano Pedrosa, ha avuto una eco che si è propagata fra i ruggiti dei Leoni d’oro e d’argento assegnati dalla giuria, guidata dalla presidente statunitense Julia Bryan-Wilson. Proprio l’America, quest’anno, è stata rappresentata dal cherokee Jeffrey Gibson per la prima volta nella storia: Gibson è anche un membro della Mississippi Band of Choctaw, discendenti di quei nativi che si rifiutarono di lasciare la loro terra durante la deportazione forzata.
Nei premi c’è dunque l’omaggio ai migranti del mondo, agli alfabeti visivi che l’occidente non ha ancora cannibalizzato (ma il mercato e le gallerie li fiutano con lungimiranza) e la cultura nella sua qualità di atto politico, metaforico e poetico, come ha ricordato Anna Maria Maiolino, 81 anni, anche lei una fuoriuscita, italiana trasferitasi in Brasile e «leonessa alla carriera» insieme alla turco-egiziana-parigina Nil Yalter (86 anni). Quest’ultima guarda agli esodi delle popolazioni da quella tenda del nomadismo che intitola, in più lingue, L’esilio è un duro lavoro, tributo al poeta turco Nazim Hikmet perseguitato dal regime per le sue idee marxiste. «Sono qui con un’opera creata mezzo secolo fa per denunciare le condizioni dei migranti costretti a lasciare i loro paesi per motivi economici e dopo cinquant’anni, purtroppo, non è cambiato nulla», ha affermato.
Fra le menzioni speciali, ci sono poi la palestinese Samia Halaby, esposta in mostra nel «Nucleo dell’astrazione storica», che ha dedicato il premio a Gaza e a «tutti i popoli senza patria» e l’argentina La Chola Poblete, artista trans-indigena che con il suo immaginario ironico rispedisce al mittente l’esotizzazione di nativi, donne e queer.

Violeta Quiole

LA RASSEGNA IMBASTITA da Pedrosa seguendo la suggestione del collettivo Claire Fontaine che disloca tutti «everywhere», inanella una serie di historias proprio in una città come Venezia, da sempre crocevia di civiltà e forestieri. Dal colonialismo alla diaspora fino alle appartenenze sessuali, ognuna è autonoma, costruita su arazzi, sculture, installazioni, tendaggi, filmati (pochi). Per il curatore, sono delle contro-narrazioni, un invito a guardare dall’altra parte del pianeta, quella non occidentale. Si va dal Museum of the Old Colony di Paul Delano basato su Porto Rico e le lotte delle comunità latinoamericane e caraibiche all’esplorazione tassonomica degli alberi amazzonici di Abel Rodriguez, botanico e artista del gruppo etnico dei Nonuya, fino alle tradizioni andine di Violeta Quispe: le sue Tablas de Sarhua, dipinti su legno un tempo patrimonio al maschile, divengono strumenti culturali per combattere la violenza di genere.
L’estetica del rovesciamento, dell’intrusione dell’altro, a cominciare dalla facciata del padiglione centrale reinventata dalle cosmologie leggendarie e sgargianti dei brasiliani Mahku, riporta in auge la pittura. I linguaggi si intrecciano decretandone una supremazia perduta, insieme alla fisicità delle sapienze antiche, prima fra tutte quella del ricamo (la via era già stata percorsa da Cecilia Alemani).

IL RISCHIO di questo itinerario concettuale che (va dato atto) Pedrosa ha meticolosamente costruito con un lavoro capillare, anche di archivio, è però dietro l’angolo. Parlare di nord e sud del mondo non restituisce la realtà di una cartografia politica ben più complessa e non porre in dialogo «il soggetto differente» per ribadire l’asimmetria del potere che ha fin qui guidato le filosofie dominanti può significare isolarlo ancora una volta. O peggio, offrirlo in pasto all’omologazione. Da rivendicare, quindi, è quel «diritto all’opacità», quel comprendere senza prendere teorizzato da Édouard Glissant, intellettuale martinicano che è tornato spesso, potente, in questa Biennale.