Non ci si può sottrarre, tanto più quest’anno, dalla consapevolezza che la ricorrenza della Liberazione cada in un periodo di guerre, alle porte dell’Europa occidentale come nel Mediterraneo, nel mentre la deriva populista e sovranista da tempo si sta traducendo, in non poca parte del mondo, in un esercizio di dominio antidemocratico. Il ciclo delle democrazie sociali ed inclusive, inauguratosi nel 1945 e suggellato da nuovi patti costituzionali, sta progressivamente declinando. Al suo posto subentrano altre forme di agire politico, variamente articolate e tuttavia accomunate dalla concentrazione del potere negli esecutivi così come dalla compressione del pluralismo, sia istituzionale che sociale.

Impossibile non leggere in ciò, anche un nesso diretto tra il mutamento dell’economia internazionale, gli assetti del mercato mondiale e lo spiaggiamento di interi segmenti delle società, questi ultimi sottoposti agli effetti di trasformazioni che non governano ma da cui sono pienamente investiti. Così Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati in Democrazia afascista (Feltrinelli, pp. 160, euro 17). I due studiosi fanno risalire agli anni Settanta, con l’avvio della crisi regolativa e redistributiva degli Stati nazionali, l’innesco di un processo che in Italia, ma non solo, sta dando corpo e sostanza ad una sorta di autocrazia elettorale, basata sulla neutralizzazione dei dispositivi costituzionalistici e sulla promozione di una democrazia anestetizzata, dove la separazione dei poteri e, più in generale, le pratiche legate alla giustizia sociale, sono risolte dentro il magma populista.

IL QUADRO CHE EMERGE dalla lettura del testo è ben più che preoccupante, identificando nell’Italia, e nella parte più sofferta della sua storia recente, una sorta di modello di riferimento. Ovvero, un idealtipo, un calco dentro il quale altre nazioni vanno in qualche modo ridisegnando i confini delle loro libertà. La sfida è quella che intercorre tra una destra radicale, post-costituzionale, intrinsecamente illiberale, volta a presentare il pluralismo culturale e sociale non come un’opportunità bensì al pari di una minaccia, e un sistema di rappresentanza e partecipazione politica da rifondare. Altrimenti la condanna rischia di essere irreversibile. Che con ciò venga chiamata in causa non solo la crisi della politica medesima, in sé colonizzata dal radicalismo sovranista e suprematista, ma anche e sempre più spesso il circuito istituzionale, quello sancito dal patto di società determinatosi con la Liberazione, è il segno di come l’orizzonte risulti estremamente problematico. Non è quindi sufficiente richiamarsi ai suoi valori fondanti. Se non altro perché questi vengono narcotizzati dentro il dispositivo nazionalpopulista.

Le destre post-costituzionali – ed è questo un passaggio decisivo nella nostra riflessione – stanno utilizzando la stessa cassetta degli attrezzi che i partiti democratici e quei corpi intermedi che si erano rigenerati con lo spartiacque del 1945 avevano fatto propria. È nel nome della «libertà» che queste dicono di agire; è con il richiamo all’ingiustizia da riparare che raccolgono il disagio diffuso; è nel soddisfacimento della ricerca di protezione, rispetto ad un futuro potenzialmente minaccioso, che dichiarano di trovare la propria legittimazione popolare. Riformulano il tema dell’autorità nei termini dell’autoritarismo.

Riscrivono la questione sociale trasformandola in azione penale. Sostituiscono ai sistemi di garanzia sociale e di redistribuzione il simulacro di uno Stato che sarebbe autorevole perché ricondotto all’attributo della mera forza. Soprattutto, trasformano la collettività in adunanza plebea, da interpellare in maniera sempre più spesso plebiscitaria. Si tratta di un processo diffuso, che coinvolge molti paesi, poiché sono le stesse premesse sulla scorta delle quali si basavano gli equilibri politici e civili nelle società a capitalismo industriale ad essere sottoposti ad una violenta torsione, laddove va invece affermandosi, dopo l’età dell’individualismo proprietario, anche una sorta di comunitarismo autoritario.

LE DUE COSE SI TENGONO insieme: nel ritorno al primitivismo della «roba», del suo possesso come indice esclusivo di identità personale, si sovrappone e si mescola il riconoscersi nell’indistinzione dell’essere moltitudine, perlopiù dolente, alla ricerca di un qualche risarcimento. Materiale e simbolico, al medesimo tempo. Sul piano dell’immaginario collettivo, e della sua manipolazione, va peraltro detto che le destre illiberali sono sempre state maggiormente competitive rispetto ai loro contendenti. La loro natura mitopoietica non è un tratto residuale, un ritorno del passato, una condizione con la quale «non si sono fatti i conti», bensì l’essenza stessa del loro intendere la politica medesima, in quanto costruzione di immagini da consumare collettivamente. In tale modo, esercitano il loro ruolo effettivo, quello di garantire la continuità dei poteri strutturati, a partire dall’economia.

DATO UN TALE STATO DI COSE, il 25 aprile rischia, ancor più di quanto già non sia, di trasformarsi per i molti in uno stanco rituale. Le retoriche del «mai più!», del «dovere della memoria» così come i rimandi all’alba di una nuova età liberata dalle schiavitù del presente, si accartocciano su di sé. Le logiche dell’equivalenza morale e politica tra campi contrapposti, quindi della sovrapposizione tra opposte versioni del passato, che dovrebbero brillare di una sorta di obbligata analogia, si condensano nel non senso di ciò che dovrebbe costituire una «memoria condivisa», ossia un processo di «pacificazione» che, oltre a parificare fascismo e antifascismo, enfatizza i lasciti del primo per destituire di legittimità culturale, civile, morale il secondo.

Le «verità dei vinti», quelle che vengono fatte passare per impronunciabili poiché ingiustamente estromesse dal campo della discussione pubblica dal 1945 in poi, sono corroborate dallo spirito di rivalsa, nel quale si identificano sempre più spesso coloro che, a torto come a ragione, si sentono messi progressivamente ai margini delle trasformazioni socio-economiche. Non di meno, l’istituzionalizzazione e il ritualismo legati al calendario civile rischiano di accentuare quel carattere di «tempo senza storia» che il presente sempre più spesso presenta. Una categoria alla quale riferirsi è allora quella dell’anti-antifascismo, laddove il fuoco della polemica non è riconduce alla rivalutazione del fascismo storico, e ancora meno alle frange neofasciste, bensì all’avversione che da sempre alligna nel campo nazionalconservatore verso ogni forma di autonomia ed emancipazione. Si tratta della contro-lettura della lotta di Liberazione, quella che la riduce a un esercizio tanto fazioso quanto premonitore della corruzione che avrebbe attraversato tutta la storia repubblica, costituendone, in fondo, la sua stessa essenza.

Un testo con cui proseguire è quindi quello di Luca Casarotti, L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, pp. 143, euro 14), che affronta il tracciato della delegittimazione del percorso resistenziale, e delle culture politiche ad esso legate, dagli anni Novanta in poi. L’autore lavora sulla logica e la semantica del rigetto dell’esperienza antifascista dagli anni dell’ascesa di Berlusconi ad oggi. Ciò facendo, si adopera nell’analisi critica di alcuni volumi di ampia diffusione, a partire da autori solidamente ancorati al mercato editoriale, ancorché tra di loro molto diversi.

IN ATTESA CHE ALTRI STUDI si aggiungano a quelli già esistenti, altrimenti in sé ancora piuttosto modesti, va segnalato il lavoro di taglio politologico di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia. Il partito della destra nazional-conservatrice (il Mulino, pp. 291, euro 18) che offre, per la prima volta, un quadro di riferimento non solo sulla formazione politica di maggioranza relativa, e quindi sulla sua cultura di riferimento, ma anche sull’evoluzione di una destra irrisolta nel suo a-fascismo che da espressione marginale di una parte dell’elettorato ha invece ingaggiato, ad oggi con successo, un conflitto per il dominio culturale del senso comune. A corredo di queste pagine ci sono quelle, molto dense, piene di riferimenti antropologici alle culture visuali, di Luciano Cheles su Iconografie della destra. La propaganda figurativa da Almirante a Meloni (Viella, pp. 217, euro 29). Laddove il catalogo, per così dire, è tanto ampio quanto angosciante.