Marianna non ha pelle d’alabastro, mani curate, capelli lucidi sotto il berretto frigio. Ha le dita rovinate di chi passa la vita tra la cucina e il lavoro a maglia. Però non sferruzza più solo nei tuguri popolari del Faubourg Saint-Antoine, roccaforte giacobina, ma anche di fronte alla Convenzione rivoluzionaria. Non parla il francese di Chateaubriand, ma il gergo dialettale e ruvido dei quartieri popolari e lo fa sentire forte e chiaro nel cuore del potere, perché la Rivoluzione è questo: dare voce a chi non ne aveva, affidare potere a chi ha sempre dovuto subirlo.

Tra i molti personaggi di L’armata dei sonnambuli (Stile libero, Einaudi, pp. 796, euro 21.00) l’ultimo romanzo del collettivo Wu Ming, che eguaglia e forse supera il capolavoro d’esordio Q, firmato allora Luther Blisset, la vera protagonista è lei, Marianna, il simbolo collettivo delle donne di Parigi e del popolo di Parigi, il cuore sconfitto della Rivoluzione. Ha molti nomi e molti volti: quelli di Marie Nozière, l’operaia dei sobborghi che forse era antenata della famosissima parricida Violette Nozièere, di Claire Lacombe, l’attrice proto-femminista che tentò di forzare la mano a Robespierre reclamando il compimento della Rivoluzione nei fatti e non solo nella lettera della Costituzione, della sua amica Paoline Lèon, co-fondatrice della Società delle Repubblicane Rivoluzionarie, quella che chiedeva di armare e arruolare le donne della Rivoluzione.

Sono personaggi reali, pur se romanzati, le protagoniste dimenticate della Grande Rivoluzione, il lato in ombra della storia. Come sono veri quasi tutti gli altri protagonisti di questa epica saga del Terrore e della Controrivoluzione: l’attore italiano Leonida Modonesi, che, chissà, forse era davvero il rivoluzionario in maschera diventato dopo Termidoro l’eroe del popolo sconfitto dei sobborghi, Scaramouche; il medico Orphée d’Amblanc, esperto in quello che si chiamava allora «mesmerismo», la tecnica d’ipnosi che aveva avuto il suo momento di gran gloria in Europa subito prima della Rivoluzione e che, nella versione dei Wu Ming somiglia alla Forza di Star Wars. E con loro tutti gli altri, troppi per nominarli tutti, i popolani e i dotti, le rivoluzionarie e le cortigiane, i sanculotti e i «muschiatini», come vengono qui definiti i «moscardini», la truppa controrivoluzionaria composta da giovani piccolo-borghesi travestiti da aristocratici che erano anch’essi, senza volerlo e senza saperlo, agenti della trasformazione, perché quando mai il vero ancien régime avrebbe tollerato che una simile plebglia si camuffasse da squisiti ci-devant?

Di libro in libro, i Wu Ming hanno messo a punto una formula magica che è facile imitare e difficilissimo eguagliare. Lavorano con cura meticolosa sulla realtà storica, ma riescono a farla parlare con altrettanta precisione del presente: questa vicenda di rivoluzione e controrivoluzione, cosa ben diversa dalla mera restaurazione, è una parabola che abbiamo vissuto anche noi, nell’Italia degli ultimi decenni. Procedono lungo i binari di una narrativa epico-popolare, che guarda a Dumas più che a Ken Follett, ma allo stesso tempo lavorano sul linguaggio con passione sperimentale degna della più sofisticata avanguardia. Di romanzo in romanzo, i Wu Ming perseguono un progetto che è tanto letterario quanto politico, spostare i riflettori sui dimenticati della storia, le insorgenze cancellate e oscurate dai vincitori perché se ne perdesse anche la memoria: i contadini d’Europa infiammati e poi traditi dalla Riforma in Q, i partigiani disarmati e non domati del dopoguerra italiano in Asce di guerra, le tribù guerriere e destinate allo sterminio nell’America di Manituana, le rivoluzionarie e i sanculotti di Parigi in quest’ultimo romanzo. Sono storie di sconfitte che invece di scoraggiare accendono speranze e restituiscono fiducia. Dicono che, comunque sia finita, è valsa ogni volta la pena di lacerare, anche solo per un momento, l’ordine eterno delle cose. Avvertono che, per quanto invincibile sembri dopo ogni sconfitta il potere, ci sarà sempre, di nuovo, chi sceglierà di camminare sulla testa dei re nel grande spettacolo della Rivoluzione, dove le comparse diventano protagonisti.