Dopo una breve scena in cui Gerard Depardieu rivolgendosi direttamente al pubblico mischia le carte tra la sua identità e quella del personaggio, la storia di Welcome to New York inizia in realtà a Washington, dove George Devreaux (che, secondo il disclaimer autoironico in testa al film non ha nulla a che vedere con Dominique Strauss-Kahn), presidente del Fondo monetario internazionale, sta pianificando la security per la sua imminente campagna elettorale in Francia. Nel suo ufficio anche un paio di prostitute, con cui Devraux si intrattiene vistosamente e che offre di condividere con l’esterrefatto capo delle guardie del corpo. Non molti di coloro che finora hanno visto il film (presentato ieri sera qui a Cannes fuori dal programma del festival, in una gremitissima proiezione sotto una tenda nella spiaggia di fronte al Carlton – e reso disponibile su alcune piattaforme digitali di matrice francese) hanno notato quel prologo in cui, con un breve montage di squarci di banche e monumenti, Ferrara stabilisce un’equazione tra l’aggressività sessuale del suo protagonista e quella dell’enorme potere politico/finanziario che rappresenta. Welcome to New York è un po’ il suo The Wolf of Wall Street.

Quando, dalla capitale, Devraux si sposta a Manhattan diventa immediatamente chiaro che il suo appetito per il sesso è patologico, oltre che insaziabile. Nel giro di una sera e una notte, il grasso, grugnente, uomo politico “consuma” infatti un numero impensabile di donne, che escono ed entrano dagli ascensori dell’albergo e della sua stanza. Lo champagne scorre, letteralmente, a fiumi. Depardieu si affida completamente a Ferrara, che in cambio trae da lui una performance di straordinaria intelligenza, piena di sfumature  – allo stesso tempo indifesa e controllatissima. Calibrate per una durata che va ben oltre il limite di tolleranza, le scene di sesso sono filmate con un’implacabilità warholiana – lo humor, nasce a poco a poco, da dentro. Perché  Welcome to New York è anche un film molto divertente. Quando, il mattino dopo, Devraux afferra brutalmente una terrorizzata cameriera d’albergo entrata per sbaglio in stanza mentre lui stava facendo la doccia, lo fa quasi senza pensarci – è solo un’altra testa da accostare al suo pene. Ferrara coreografa la scena di violenza risolvendola sostanzialmente in una sola inquadratura –lui (quindi il pubblico) non ha dubbi su quello che è successo quella notte del maggio 2011, al Sofitel.

Resa in una specie di kabuki comico la ricostruzione di come Dominique Strauss-Kahn venne arrestato a JFK (scoprirono che era sull’aereo in partenza perché aveva dimenticato il telefonino nella stanza d’albergo), con le ineffabili guardie aeroportuali che, non avendo idea di chi sta loro davanti, umiliano il grande Devraux come una procedura criminale qualsiasi. E’ l’omaggio del newyorkese Ferrara all’anima egualitaria/proletaria della sua città (welcome to New York….) e l’occasione per sottolineare la sua storica diffidenza nei confronti dei potenti –del cinema e no.

Potere è anche dall’altra parte dell’oceano. La signora Devraux (Jacqueline Bisset) riceve la notizia di quello che è successo, mentre sta presenziando a una fastosa cena ai vertici parigina, del tipo che uno s’immagina organizzasse Madame Strauss-Kahn/Anne Sinclair  in previsione della campagna elettorale di suo marito, e durante la quale viene ringraziata per tutti i contributi che ha dato allo stato di Israele.

Abel-Ferrara

Ferrara sceglie di seguire le grande linee del caso Strauss- Kahn anche nella seconda parte del suo film. Pagata una strepitosa cauzione perché il marito sia rilasciato agi arresti domiciliari mentre è in attesa del processo, Simone Devraux affitta un’intera casa a Tribeca, perennemente assediata dai giornalisti e all’interno dei cui muri, il tono di Welcome to New York passa da Warhol a scene di matrimonio secondo Cassavetes. Un film “da camera”. Perennemente appesa a un ridicolo bicchiere di vino rosso, Madame Devraux/Jacqueline Bisset (che ha il ruolo più difficile e ingrato del film) appende implausibili quadri d’arte moderna ordinati apposta. Ma è un decor che non ha il potere di nascondere nulla. Tutto questo – tra loro – è già successo, anche se in forme differenti. Lui lo ammette candidamente alla figlia. Come due animali in gabbia, marito e moglie se lo ripetono a vicenda (a un certo punto, in un momento particolarmente crudele, lui ironizza sulla fortuna finanziaria della famiglia di lei, ammassata durante la guerra).

Ferrara è un regista preciso, anche in un film slabbrato come questo: è chiaro che non giudica quell’establishment socialista di gran classe meglio del suo protagonista.

E, mentre il film è stato accolto da recensioni positive soprattutto nei territori anglosassoni (favorevoli Variety e Hollywood Reporter, ma è addirittura entusiasta il Guardian: “Si tratta del giusto l’antidoto dei bassifondi alla sofisticatezza del line-up ufficiale. La perdita del concorso si è trasformata in un guadagno del grande pubblico”), in Francia la risposta è più mista (piace a Le Monde, ma a non Libération).

Intanto, sul sito dell’Huffington Post francese, che dirige, anche Anne Sinclair si è fatta sentire, esprimendo “disgusto”:  “Le allusioni fatte al comportamento della mia famiglia durante la guerra sono degradanti e diffamatorie”.

Da Cannes, Ferrara ha immediatamente risposto: “Non sono antisemita. Almeno spero, visto che sono stato educato da donne ebree”, ha detto il regista alla France Press.