A partire dal 14 aprile, e fino al 17 maggio, il Centro Pompidou dedica una personale al regista cinese Wang Bing. In programma ci sono una retrospettiva integrale dei suoi film e una galleria di tre serie di fotografie in grande formato realizzate tra il 2013 e il 2014. Lui ha portato con sé da Pechino due film inediti, Tracce e Padre e Figli, che verranno proiettati in loop, nello spazio espositivo.

Wang Bing è uno dei cineasti più importanti dell’ultimo decennio. Il suo lavoro è apparso nel 2003, con un film monumentale, West of the Tracks (A Ovest dei binari), nel quale si incrociavano, toccandosi e sostenendosi due parabole: quella decadente dell’industria pesante di stato e quella appena nascente del cinema indipendente digitale. Come se la punta estrema di un certo modo di produzione avesse aspettato, per il suo canto del cigno, il momento in cui le condizioni materiali adatte a filmarne la grandezza fossero apparse. La chiave narrativa di Wang Bing è la durata, che ad alcuni può sembrare eccessiva. Le nove ore di West of the Tracks, le quasi quattro del suo ultimo Till Madness do us Part (premiato a Filmmaker 2013), possono respingere rendendo questi film difficili da mostrare in sala (eppure, West of the Tracks in Francia ha fatto 10 000 ingressi nel 2003). Ma è proprio la durata che permette a Wang Bing di piegare il genere documentario fino a far affiorare una vera e propria narrativa. Non a caso i cineasti da cui Wang Bing ha imparato di più sono Tarkovski, Antonioni e Jean Eustache. Nessuno di questi è un documentarista – anche se La Cina di Antonioni e Numéro zéro di Eustache sono due straordinari film documentari, ai quali Wang Bing ha guardato spesso. Tutti e tre hanno la particolarità di cogliere la spiritualità nel dettaglio, nel particolare, nell’individuo. È proprio su questa base che il cinese Quotidiano del popolo, nel 1972, stroncò La Cina, con la motivazione che Antonioni, invece di riprendere la piazza Tien’amen in tutta la sua monumentale unità, sarebbe andato ad inquadrarne gli angoli e i lati, per cercare visi e corpi formicolanti.

Il cinema di Wang Bing ha fatto di questo «errore» una regola. E non c’è una sua inquadratura che non contenga al suo centro una persona. Non c’è un luogo in cui la sua videocamera vada, se non è una persona a portarcela. Più di un ragionamento si tratta di un’intuizione, probabilmente morale, senza dubbio politica: c’è più totalità in un singolo viso che nella forma di un’intera città.

I film di Wang Bing sono incredibilmente belli e piacevoli da vedere perché raccontano storie e personaggi appassionanti, che nessuna finzione e nessun documentario è mai riuscito a raccontare. E se, ne Il denaro del carbone, WB prestava a Karl Marx la strategia del Capitale: ricostruire il sistema di produzione capitalistico seguendo passo passo il romanzo di una merce, non commetteva l’errore del filosofo di Treviri, che a tanti lettori impedisce di andare oltre le prime pagine, e che consiste nel separare il discorso astratto dalle storie concrete. Ogni film è un’avventura incredibile in compagnia di operai gioviali, giovani innamorati, camionisti intrepidi, poliziotti corrotti, bambini pastori e folli geniali. Film dopo film, essa disegna un lungo cammino attraverso tutta la Cina: dal nord-est (West of the Tracks, The Man With no Name), al centro (Fengming, Coal Money) al nord-ovest (Il fosso, Crude Oil) al sud (Tre sorelle; ‘Til Madness).

Nella retrospettiva ci sono due titoli inediti. Di che cosa si tratta?

Il primo è un film in 35 millimetri. Dura 25 minuti e si chiama Tracce. Le immagini sono state girate nel 2005, nl deserto del Gobi, dove si trovava il campo di lavoro chiamato Jiabiangou, che abbiamo ricostruito a qualche centinaio di kilometri di distanza in The Ditch (Il fosso, 2010, in concorso alla Mostra di Venezia). Ho filmato soprattutto i cadaveri abbandonati. Ma ho anche diverse riprese del paesaggio.

Perché il 35millimetri?

In effetti non è un formato che uso di solito. Ma Yang Fudong, un artista che conosco dal ’95, aveva lasciato a casa mia le bobine di un film girato nel ’96, Estranged Paradise. Qualche anno dopo, si è ripreso il materiale e mi ha lasciato sessanta minuti di pellicola vergine. Nel 2005, quando sono andato a fare i sopralluoghi per The Ditch, ho deciso di portare con me quella pellicola. Avevo anche una videocamera mini-DV, ma ho voluto filmare in 35mm il paesaggio del Gobi che presto cambierà completamente.

E il secondo film ?

Si chiama Padre e figli. È un corto, costruito attorno a una sequenza girata e montata per Tre sorelle, che non ha trovato posto nel film. La sequenza mostra due ragazzi che raccolgono escrementi. Li ho incontrati per caso. Erano soli, la madre li aveva abbandonati e il padre aveva lasciato la montagna per lavorare in città come operaio. Qualche mese dopo sono riuscito ad entrare in contatto con il padre. Mi ero immaginato che lavorasse in una fabbrica, conducendo un’esistenza dura ma decorosa. Con sorpresa ho scoperto che il suo lavoro era rompere la pietra per farne della sabbia. La sua situazione era la stessa, o quasi, del contadino che vive come un troglodita e che ho filmato in The Man with no Name. Qualcuno mi aveva dato il suo numero di telefono. Ho provato a chiamarlo per un giorno intero, invano. Durante il giorno dormiva. Abitavano in tre in una camera di quattro metri quadrati con un fornello da campo e un letto più piccolo di un divano. Dormivano tutti lì, nell’assenza più totale di intimità.

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Perché queste tre persone in particolare? Non è questa loro indigenza che vi ha spinto a filmarli, no ?

Sì invece! È la loro condizione di vita che volevo filmare. Bisogna mostrare i problemi della Cina contemporanea, e l’ipocrisia di questo sistema dove la crescita economica nasconde un impoverimento sia materiale che spirituale che tocca milioni di persone.

Ma perché questa famiglia? Devi averci trovato una qualche bellezza…

Non c’è nulla di bello da vedere: il film mostra l’esperienza della vita. La vita delle persone è importante. Non si può tollerare la loro sofferenza. Io voglio mostrare la loro vulnerabilità. E la fierezza e la forza che sono la loro umanità.

In che tipo di famiglia sei cresciuto?

Sono nato nel 1967, à Xi’an, la capitale della provincia dello Shaanxi, nel centro della Cina, ma ho passato la mia infanzia in campagna con mia madre. La regione che abitavamo è conosciuta per il suo grande altopiano di terra gialla … La mia casa si trovava a cinquanta metri da uno strapiombo, ricordo di aver giocato molte volte sui bordi della parete. Siamo stati risparmiati dalla carestia che ha colpito il paese in quegli anni. Le vaste terre di quella campagna erano un po’ aride ma fertili. Ci facevamo crescere grano e patate dolci. Ero contadino e pastore.

Come le bambine di «Tre sorelle»?

Esattamente. I miei genitori hanno lasciato il loro villaggio quando erano adolescenti per stabilirsi in città, a Xi’an. Erano entrambi architetti, degli intellettuali. In Cina, sopratutto a quell’epoca, pochi terminavano gli studi universitari. Mio padre era un uomo brillante, gran lavoratore. Dopo il diploma è stato ammesso all’università, poi ha trovato lavoro in uno studio pubblico di architettura dove lavorava anche mia madre. Lei è rimasta à Xi’an fino al 1960. All’epoca, a causa della Grande carestia, il governo ha chiesto a una parte della popolazione di tornare nelle campagne. Mia madre è tornata nel suo villaggio. Mio padre, in un primo tempo è rimasto a Xi’an. Nel 1966 ha chiesto un congedo. La violenza Rivoluzione culturale era al suo secondo periodo, la violenza politica era alta. Per lui era troppo. Si è rifugiato in campagna, dove è rimasto fino alla fine degli anni 1970. Ha ritrovato il vecchio impiego nel ’79 ma è morto due anni dopo in un incidente. Aveva quarantacinque anni. Io ero alle scuole medie.

La retrospettiva presenta anche una galleria fotografica. Di che si tratta?

É una serie fotografica del personaggio di L’uomo senza nome. Il film è stato girato nel 2008. Ho trovato questo personaggio incredibile mentre facevo un giro in macchina nella regione dello Hebei, non lontano da Pechino. Ci trovavamo in una zona desertica, attravesata solo da qualche camion, quando improvvisamente abbiamo visto un uomo a piedi che raccoglieva escrementi animali e li metteva in un sacco. L’ho seguito fino a casa, viveva in una caverna. In seguito sono andato a trovarlo diverse volte. Non abbiamo mai parlato, non aveva voglia di comunicare con la parola. Per questo non ho mai saputo come si chiamasse. Ma quando la galleria Chantal Crusel mi ha proposto di fare una mostra, ho subito pensato a realizzare un film con l’Uomo senza nome. Più recentemente, gli ho fatto alcune foto mentre cammina o lavora la terra. Sono in pellicola e in bianco e nero. Ne ho selezionate alcune che abbiamo stampato in grande formato per il Pompidou.

È la prima volta che esponi al pubblico delle tue foto. Eppure, la fotografia è stata la tua porta di ingresso nel mondo dell’arte.

Dopo la morte di mi padre, grazie ad una vecchia legge cinese, ho ereditato il suo posto nella società di architettura… A quattordici anni ! Per lo Stato ne avevo sedici: mia madre ha mentito sulla mia età perché potessi averlo. Non avevo nemmeno la licenza media. Per un anno sono stato a rispondere al telefono. Intorno a me c’erano giovani più grandi, tutti diplomati. Mi sentivo a disagio. Volevo entrare all’università ma passare il concorso da autodidatta era un’impresa impossibile. Grazie a un amico ho scoperto la fotografia di cui mi sono subito appassionato. Ho fatto uno stage, e sono riuscito a entrare alle Belle arti. Poi sono stato ammesso all’Accademia di cinema, ma quelli alle Belle arti sono stati gli anni fondamentali; è lì che ho concepito le basi del mio sistema estetico.

In che cosa consiste?

Difficile descriverlo a parole. Quando si sta per fare una fotografia e si osserva l’apparenza del mondo, bisogna concentrarsi e cercare di guardare l’oggetto nella sua concretezza. Dopo un certo tempo, non è più l’oggetto che si guarda ma il suo interno, il suo nocciolo.

Questo tipo di esercizio ti è servito anche per il cinema?

Sì, perché il cinema è basato sull’immagine. La fotografia e il cinema non hanno lo stesso formato ma in entrambi, attraverso l’obiettivo, si osserva un oggetto, il mondo dell’oggetto. È da qui mondo che viene l’immagine. Per esempio questa caraffa davanti a me, possiamo chiederci come filmarla…

Cioè come inquadrarla ?

No. L’inquadratura non è fondamentale. Quello che conta, nell’immagine, è chiedersi che cos’è questa caraffa. L’oggetto che vediamo sull’immagine, l’oggetto in sé, la sua vita. Non si tratta di osservare il bordo ma l’oggetto. È la stessa cosa per la pittura. Quando si guarda qualcosa non ci si può limitare ad un semplice sguardo, ci si deve chiedere: che cos’è una cosa ?