Lo scorso 13 aprile è finita la performance di Abraham Poincheval. L’artista francese – noto per la sua arte estrema – ha vissuto per 13 giorni nella carcassa sterilizzata di un orso. L’aveva già fatto lo scorso anno al Centro per l’arte contemporanea di Digne, stavolta “Danse la peau de l’ours” ha avuto luogo al Museo della caccia e della natura di Parigi. Poincheval non è il primo e non sarà l’ultimo a restare affascinato dal potere iconico/culturale/sociale dell’orso. In ambito pop la mitologia ursina attraversa il Novecento e arriva fino ad oggi. In Giappone, ad esempio, uno degli oggetti di culto esportato in tutto il mondo è il Bearbrick, giocattolo della Medicom, orso antropomorfo a cui designer, artisti, graffitari, musicisti ecc. forniscono un rivestimento di colori, segni, disegni. Risultato: massimo oggetto da collezionismo tirato spesso in copie ridotte. Si va dal Bearbrick dei Sex Pistols, Ramones o Daft Punk a quello di Warhol o H. R. Giger a quelli di Chanel o Vivienne Westwood. Tra i cantanti che più hanno omaggiato il plantigrado (di pezza/peluche) c’è sicuramente Elvis che all’orso dedicherà (Let Me Be Your) Teddy Bear, il suo classico del 1957 scritto da Kal Mann e Bernie Lowe. Canta Presley: “Non voglio essere una tigre, perché le tigri giocano con troppa irruenza, non voglio essere un leone perché i leoni non sono il genere che ami troppo, voglio solo essere il tuo orsacchiotto”. Il corto circuito è evidente: Elvis si trasforma nell’animale antropomorfizzato e infantilizzato che celebra. E non sorprende. Quella canzone sta tutta dentro una delle operazioni più incredibili di merchandising messa in atto dalla cultura di massa del Novecento: l’invenzione dell’orso come oggetto e soggetto pop. Come sottolinea Roberto Franchini nell’efficace saggio Il secolo dell’orso (Bompiani, 2013), proprio nel Novecento l’animale non è più solo l’immagine rovesciata dell’uomo (come veniva raffigurato nei secoli passati), ma diviene soprattutto la sua riduzione a simulacro del bambino eterno. Sempre secondo Franchini i capostipiti dell’umanizzazione dell’orso sono la pubblicazione de Il libro della giungla (1894) di Kipling e la nascita dell’orsetto di peluche, avvenuta contemporaneamente negli Stati Uniti (il negozio Michtom) e in Germania (l’azienda Steiff). Nel testo di Kipling – adottato come manuale educativo dagli scout e adattato come cartone da Walt Disney – spicca Baloo, guida spirituale e quasi fratello maggiore di Mowgli. Nel 1902, invece, nasce il teddy bear, tra le massime icone Usa novecentesche. In quell’anno apparve sul Washington Post una vignetta di Clifford Berryman dedicata al presidente Theodore Roosevelt (soprannominato Teddy). Amante della caccia si racconta che durante una battuta avesse risparmiato un cucciolo d’orso che alcuni colleghi avevano catturato appositamente per lui; storia falsa, si appurerà, ma tant’è. L’animale venne soprannominato l’orso di Teddy, il Teddy bear. Va da sé che per la campagna elettorale per la rielezione Roosevelt scelse un orso come mascotte. Di lì a poco Morris Michtom (che presto darà vita alla Ideal Novelty and Toy Company) ebbe l’idea e il permesso di produrre orsi di pezza con sopra il cartello “Teddy’s bears”. Si trattava di plantigradi ritti sulle zampe, dall’aspetto dolce e innocente. Il pupazzo non aveva l’aspetto fiero e non poggiava sulle quattro zampe come tutti i giocattoli ursini precedente. Questa, di sicuro, la ragione del grande successo. Casualmente (!) negli stessi mesi la tedesca Steiff, già produttrice di animali di stoffa e peluche, si dedicò anch’essa agli orsi. Ne vendette subito 3mila a un importatore Usa. Margarete Steiff e il nipote Richard (suo il disegno) hanno sempre sostenuto di essere stati loro gli inventori dell’orsacchiotto. Anche qui, posizione eretta e occhi dolci. Il fatto che l’orso di Michtom avesse anche un nome, Teddy, lo trasformò subito in personaggio consegnandolo a una sequela di libri, filastrocche per l’infanzia, canzoni, stampe, vignette. Il giocattolo simbolo del Novecento creerà cortocircuiti creativi fondamentali per far nascere dopo la prima guerra mondiale nuovi personaggi: basti pensare a Winnie The Pooh (che darà il nome anche ai nostri Pooh), modellato sull’orsetto di pezza del figlio dell’autore del libro o a Paddington, ispirato a un pupazzo visto in un negozio di Londra. Ancor prima l’inglese Rupert, orso ragazzino (anche nel vestire) nato dalla pura fantasia di Mary Tourtele amatissimo da Paul McCartney (lo volle nel video del 1984 We All Stand Together e gli dedicò un corto animato). Questi tre orsi, incardinati nei primi tre decenni del Novecento scatenano una inarrestabile infantilizzazione del plantigrado andata di pari passo con pubblicità che ritraevano star e persone comuni alle prese con l’orso: da Shirley Temple e il suo grande pupazzo di peluche ai bambini che cucinavano con e per l’orso. Ne consegue che il modo in cui è cambiato l’approccio culturale e sociale al plantigrado è – secondo lo stesso Franchini – un modo assai efficace per capire anche e soprattutto i nostri mutamenti e quelli delle nostre società. Il plantigrado, cioè, sarebbe un nostro specchio perfetto. Ad esempio i mutati rapporti con la natura solleciteranno negli anni Quaranta la nascita di Smokey Bear, orso pompiere anti incendi nei parchi; allo stesso modo a fine anni Cinquanta nasceranno Yoghi e Bubu trasformati in bricconi ruba cestini per via delle tante leccornie che nei parchi Usa i visitatori avevano cominciato a offrire agli orsi. Il loro lato oscuro sarà Grizzly l’orso che uccide (1976). E così passando per le allegre famigliole dei Berenstain, degli Orsetti del cuore, dei Gummi, della Sylvanian Family fino a Knut, l’orsetto bianco dello zoo di Berlino, cucciolo rifiutato dalla mamma pronto per noi e per una orso-mania senza precedenti.