Sono giorni di profonda amarezza per Khalil Shahin. «Sono già passati tre anni, Vittorio mi manca, tantissimo. E ora che si avvicina l’anniversario del suo assassinio sono travolto da ricordi ed emozioni. Per me questi non sono giorni facili», ci dice Khalil mentre prova a mettere un po’ d’ordine nel suo piccolo ufficio di vicedirettore nel «Centro palestinese per i diritti umani» (Cpdu) di Gaza. Alle sue spalle c’è una grande mappa del Medio Oriente. A sud-est del Mediterraneo c’è la Striscia di Gaza, minuscola, quasi non si vede, eppure così importante, un territorio sotto occupazione schiacciato tra Israele e l’Egitto.

È la prigione a cielo aperto per 1,7 milioni di palestinesi che Vittorio per anni ha raccontato all’Italia con articoli e messaggi in rete. Khalil Shahin era un amico di Vik, amico nel senso più compiuto di questa parola. Ci chiede di fotografarlo subito sotto il ritratto di Vittorio. «Negli ultimi mesi (precedenti al sequestro e l’uccisione da parte di un sedicente gruppo salafita, ndr) Vittorio ed io passavamo quasi ogni sera insieme. A discutere di tutto: di Gaza, dell’Italia, di politica, dei nostri sogni, di un mondo che volevamo diverso. Credo di aver trascorso con lui tra i momenti più importanti della mia vita», ricorda Khalil.

All’inizio del 2011 erano le «primavere arabe» ad alzare il tono delle chiacchiarate tra amici. La gente di Gaza aveva seguito incantata l’esito delle rivolte in Tunisia ed Egitto. Sull’onda dell’entusiasmo gli attivisti palestinesi erano impegnati in iniziative per favorire la riappacificazione tra Fatah e Hamas e la riconciliazione nazionale. «Vittorio era rimasto profondamente colpito dalla forza del popolo egiziano – prosegue Khalil –, me ne parlava spesso e si augurava che i palestinesi potessero trovare l’energia e la determinazione per mettere fine alla loro frattura interna che stava favorendo gli interessi dell’occupazione israeliana».

I colloqui serali tra Vittorio e il vicedirettore del Cpdu, si svolgevano quasi sempre nel giardino del «Gallery», un locale frequentato perlopiù da giovani attivisti laici, aspirando il fumo profumato della «shisha» e sorseggiando un tè. Non di rado si parlava dell’Italia. «Berlusconi era il bersaglio preferito di Vik – ricorda Khalil, abbozzando per la prima volta un sorriso – lo etichettava con parole durissime, mi riferiva delle sue ultime imprese (di Berlusconi, ndr) e ne ridevamo insieme. Poi cambiava tono e si arrabbiava pensando al sostegno cieco che il governo italiano dava a Israele senza tenere conto della condizione di Gaza e di tutti i palestinesi sotto occupazione».

Anche per questo Vittorio puntava sull’utilizzo dei social per mobilitare gli occidentali, a partire dagli italiani. Ripeteva che la nuova comunicazione – blog, facebook e twitter – era lo strumento ideale per raggiungere decine di migliaia di persone private di una informazione obiettiva su Gaza e la Palestina a causa delle reticenze e dei silenzi di tv, radio e grandi giornali. «Vik – continua Khalil – aveva preso molto sul serio le minacce che in rete la destra filo israeliana aveva rivolto a lui e ad altri attivisti internazionali. Ma non aveva paura, anzi era sempre più determinato a portare avanti la sua battaglia contro il blocco di Gaza».

Vittorio e il suo caro amico palestinese cominciavano a porsi interrogativi sulla crescita del salafismo nella Striscia, un fenomeno non nuovo ma che si stava facendo in quel periodo più presente, che faceva di tutto per farsi notare. «Mi faceva domande sull’ideologia salafita, mi chiedeva se questi gruppi di poche centinaia di membri fossero manovrati da qualcuno, anche fuori da Gaza. Entrambi provavamo a valutarne la crescita in termini numerici e la loro pericolosità per la causa di Gaza e dei palestinesi», prosegue Khalil che il 13 aprile del 2011 fu uno degli ultimi amici a parlare con Vittorio. «Mi chiamò alle 15.10 per chiedermi alcune informazioni sulle conseguenze di spari israeliani su contadini e pescatori (di Gaza) avvenuti al mattino, poi decidemmo di incontrarci come sempre al Gallery».

Vik però non sarebbe andato all’appuntamento con il suo amico. Quella sera fu rapito da una presunta cellula di «Tawhid wal Jihad» appena uscito dalla palestra che frequentava da qualche tempo per tenersi in forma. Khalil ci racconta di quelle ore con lo sguardo fisso e gli occhi umidi. «Quando non lo vidi arrivare telefonai all’Addar (una piccola trattoria dove Vittorio mangiava spesso, ndr). Mi dissero che aveva annunciato qualche ora prima il suo arrivo ma che poi non si era visto. Non mi preoccupai più di tanto, Vik talvolta cambiava programma all’improvviso. Non sempre mi avvisava, perchè sapeva che ero al Gallery in compagnia di altri amici». Invece Vittorio si trovava già nelle mani dei suoi sequestratori che la notte successiva, tra il 14 e il 15 aprile, lo avrebbero ucciso dopo aver postato su youtube un video di rivendicazione del rapimento.

Era un Vittorio persino più maturo quello che era tornato a Gaza nel 2010 dopo il tour di conferenze e incontri, lungo diversi mesi, che aveva tenuto in tutta Italia per raccontare della Striscia e della sua esperienza umana e politica nelle tre settimane di bombardamenti e cannoneggiamenti israeliani su Gaza durante l’offensiva «Piombo fuso» (dicembre 2008 – Gaza 2009). Il suo libro Restiamo Umani (ed. Manifestolibri) andava a ruba, la sua popolarità era enorme.

Lui però aveva messo da parte la notorietà e, con umiltà, continuando la sua attività di «protezione passiva» di contadini e pescatori palestinesi minacciati dai militari israeliani, si stava impegnando in un altro progetto editoriale. Di inchiesta, di denuncia, di analisi, finalizzato alla mobilitazione a sostegno dei palestinesi. L’inizio della scrittura del testo era stato rallentato da una notizia che lo aveva sconvolto e alla quale andava sempre con il pensiero. Il padre si era ammalato gravemente. Riferiva ad amici e conoscenti gli aggiornamenti che gli arrivavano da casa, dalla madre Egidia suo costante punto di riferimento di affetto e di impegno politico. «Vittorio era combattuto, da un lato voleva partire per l’Italia e dall’altro era riluttante a lasciare Gaza divenuta la sua seconda patria», ricorda Ebaa Rezeq, giovanissima amica di Vik e parte, tra l’autunno 2010 e la primavera 2011 di quel gruppo di ragazzi palestinesi divenuto noto con il nome di Gybo (Gaza Youth Breaks Out).

All’inizio era solo una protesta contro tutto e tutti per la condizione di Gaza. Poi, con il passare delle settimane, i Gybo divennero un laboratorio di iniziative ed elaborazione politica. «Vik veniva alle nostre riunioni – prosegue Ebaa – ma non per darci istruzioni o addirittura ordini come fanno altri internazionali che transitano per Gaza, veniva solo per ascoltarci. Voleva capire e capirci, sapeva che era sbocciato qualcosa di importante e ne era felice. Diceva che Gaza era una terra di giovani e che che i giovani si sarebbero liberati, dall’occupazione israeliana e da ogni tipo di oppressione».

Ebaa ricorda la simpatia di Vik. «Era molto serio durante le discussioni politiche, in quei momenti non amava divagare. Poi però, durante il relax, faceva battute a non finire, raccontava storielle. Aveva imparato un po’ d’arabo e la sua pronuncia approssimativa ci faceva divertire tantissimo. Vittorio ci manca molto. E’ una perdita incolmabile». Vik manchi tanto anche a me. Mi piace ricordarti con le parole che scrivesti una sera: «Continueremo a fare delle nostre vite poesie, fino a quando libertà non verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi».