Conosco il nome di Munaro dai tempi in cui mi interessavo di teatro contemporaneo, agli albori del secondo millennio. Suo fratello Massimo era (ed è) guida del Teatro del Lemming, un’esperienza di ricerca come si chiamavano al tempo le compagnie sorte negli anni Ottanta e primi Novanta. Del Munaro poeta invece conoscevo e conosco poco, so che alimentò un progetto pluriennale di confronto fra poeti e Dante, di cui lessi alcuni responsi, ma non saprei oltre. Metto dunque piede in questa sua nuova raccolta quasi nell’innocenza di una prima lettura, tranne qualche suo testo occasionale, digerito nel corso delle stagioni. Ma mi piace, questa fresca abitudine di considerare ogni libro come un primo ed unico capitolo dell’espressione di un poeta, come se fosse un quaderno di scritti sottratto alla polvere di uno studio dimenticato.

Ruggine e oro si apre in un preludio, Nulla se non il nome, in prosa, molto sentito, un appetito geografico, una sorta di autoscatto con fiume, boschi e case che nascono e scompaiono. Quindi quattro sezioni articolate: Verso il Tartaro, Canicula, Arcani minori e Lunanuova. Direi che le si potrebbe definire poesie fotografiche, capaci di cogliere lo spirito di un luogo o di una persona, luoghi nei quali la natura fluisce e invade il bianco delle pagine, ora in veste di nebbia, ora in veste di fronde, ora ancora in veste di acqua. Compare il poeta e amico Pierluigi Cappello, compare la canonica dell’infanzia, compare una madre-generosa, dèa del tempo che si può abitare, compaiono mulini, ferrovie, rogge, campanili, lepri notturne, divinità pagane del paesaggio, piazze vie e anche «Venesia», nonché pioppi maestosi e svettanti. È un tempo grandinoso, questo intagliato da Munaro, colmo di nostalgie, di pene invisibili, di un animale che si presenta fra cosa e cosa, e tiene distante un presente che è qualche passo indietro, o avanti o di lato. Quasi che fosse irraggiungibile. La felicità? Non pare qui contemplata, se non nel ricordo struggente.

Effervescenti i versi immersi nel moto delle sussistenze naturali, come ad esempio nella seconda poesia di Lund (pag. 52): «Appare in una visione / una montagna / da cui scendono i fiumi / e gli animali si abbeverano / e tu sei la montagna e l’acqua / e il leone della neve / il brivido dell’antilope / quando muove la criniera». E come non mandare a memoria, o meglio a cuore, i versi conclusivi di Ancora di ottobre, nella luce (pag. 56): «Mi affido alla sapienza delle foglie / sanno, quando viene l’ora, come cadere».
Ruggine e oro è pubblicata da Il ponte del sale, uno dei nostri preziosi laboratori dedicati a lingua e poesia sparsi per le rovinose campagne e province italiane, in questo caso da Rovigo. Si avvale di una post-fazione interessante, a cura di Stefano Strazzabosco, che così inizia la sua analisi: «Da una casa nascosta, poi inghiottita dal bosco inizia questo viaggio: quasi un pellegrinaggio, a passi tardi e lenti, camminando lungo l’Adige», una sintesi al limite della perfezione per avviare il lettore alle pagine vergate da Munaro. Al contrario, tragica l’introduzione che come è nella mentalità accademica e di certa critica, insiste a paragonare ed avvicinare le esperienze e il potere delle parole qui celate ai grandi nomi immancabili della poesia, un esercizio retorico che aureola già milioni di nuovi autori teatrali definiti incautamente «beckettiani». Ma la poesia dei nostri giorni, e dovremmo, o meglio ancora potremmo – perché no, gioisamente – ripetercelo più spesso, è autonoma, cerca e nasce dall’indipendenza ai valori obbligatori, senza ripetere o nascere come da gemmazione da quel deposito di parole e visioni che hanno scritto i poeti laureati, o nobeliati o semplicemente «sospesi sulla bocca di molti». Ogni primavera è la prima rinascita del mondo.