Non possiamo uscire dalla crisi allo stesso modo in cui ci siamo entrati, vale per il mondo, vale per l’Italia. In questi anni difficili, nell’economia del Paese si sono messi in moto anticorpi che cominciano ad essere visibili. Parlano di ambiente, qualità, innovazione. Incrociano i temi che saranno affrontati alla COP 21, la conferenza di Parigi sui mutamenti climatici.

Perché l’aumento della temperatura del pianeta non è materia per soli addetti ai lavori, ma strettamente legata a un’idea di società, di economia, di geopolitica, alle diseguaglianze sociali, al modello di sviluppo, alle tecnologie. Come ha ben illustrato la Laudato Si’’ di Papa Francesco, un lettura ampia, visionaria e, allo stesso tempo, concreta sui temi dell’ambiente. Di questi temi si discuterà giovedì 12 a Montecitorio in un convegno promosso dalla Presidente Boldrini.

Per rispondere alla crisi abbiamo assistito, in questi anni, ad una crescente innovazione in chiave ambientale di tante aziende italiane che hanno dato vita ad una green economy che si nutre di coesione sociale e di diritti; di legami con il territorio fautori di innovazione, qualità e bellezza.

Il rapporto GreenItaly, realizzato per il sesto anno consecutivo dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, fotografa questo processo e spiega la crescita, sempre più trasversale e pervasiva, dell’economia verde nel nostro paese.

Sono 372.000 le imprese italiane dell’industria e dei servizi con dipendenti che hanno investito, nel periodo 2008-2014 o prevedono di farlo entro la fine del 2015, in prodotti e tecnologie green.

In pratica una su quattro, il 24,5% dell’intera imprenditoria extra-agricola. E nel manifatturiero sono una su tre (32%). Solo quest’anno 120 mila aziende hanno investito, o intendono farlo entro dicembre, sulla sostenibilità e l’efficienza: 31.600 imprese in più dell’anno scorso (+36%).

La maggior parte della nuova occupazione viene dalle aziende che applicano o richiedono competenze “green” e, con esse, sviluppano nuove figure specializzate e professionali che sono sempre più richieste. Tutti lavori più solidi e stabili.

Nel 2015, il 14,9% delle assunzioni previste (74.700 posti di lavoro) riguarda proprio i green jobs, che si tratti di ingegneri energetici o agricoltori biologici, esperti di acquisti verdi, tecnici meccatronici o installatori di impianti termici a basso impatto: una crescita di 4 punti percentuali rispetto al 2009. Nelle aree ricerca e sviluppo si arriva al 67%, a dimostrazione del legame sempre più stretto tra green economy ed innovazione aziendale. Guardando poi oltre i green jobs propriamente detti e osservando la richiesta di competenze green, vediamo che le assunzioni con questi requisiti sono 219.500. Messi insieme fanno 294.200 occupati, il 59% della domanda di lavoro.

Possiamo quindi affermano che in Italia c’è uno spread green che si basa su un’economia che «ha alle spalle una rete robusta di solidarietà, un sistema di imprese coscienti della propria funzione sociale, un retroterra di legalità, conoscenze diffuse, passioni civili», come ha detto di recente il Presidente Mattarella.

Questo non significa nascondere i mali antichi dell’Italia: illegalità diffusa, corruzione, diseguaglianze sociali, una burocrazia farragginosa e a tratti soffocante, il Sud che perde contatto; sono pesanti fardelli che limitano e spesso impediscono la necessaria ripartenza.

E tuttavia quella della green economy è una strada da percorrere che ha in sé una prospettiva di futuro. Un’idea di economa e di società forte, visibile per chi non guarda il Paese con occhio pigro e distante, magari offuscato dalle lenti delle agenzie di rating o del declinismo.

Questa «green Italy» ottiene i risultati più importanti lì dove vi è maggiore coesione sociale. Le aziende che maggiormente puntano sull’economia sostenibile ed hanno successo, come spiega il rapporto, sono quelle che mantengono e stimolano forti legami con il territorio. La cultura, i saperi, la bellezza del nostro Paese vengono incorporate nelle idee, nei brevetti, nelle formule innovative che consentono ai prodotti «made in Italy» di essere fra i più competitivi al mondo.

E in questo legame a due direzioni con le comunità, la componente dei diritti è un valore aggiunto. Nessuno può pensare di competere con il Guandong sui bassi salari e sullo sfruttamento della manodopera.

Al contrario, la valorizzazione delle esperienze e delle professionalità costituiscono un elemento di ricchezza per la qualità della produzione e una spinta in più per il sistema delle imprese e per le comunità.

Diceva Victor Hugo che «c’è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo, e questa è un’idea il cui momento è giunto». Noi italiani ci intendiamo poco di eserciti, ma siamo forti quando si tratta di produrre idee, valori e oggetti che parlano al mondo. La green economy in salsa italiana può parlare al mondo intero.