Il punto di partenza suona come un manifesto: «Ricominciare dal pubblico». E lo è, anche se non in senso ideologico, e nemmeno programmatico. Parliamo piuttosto di una scommessa che è insieme una forma di resistenza, l’invenzione poetica di un pensiero diverso sulla «cultura», e una risposta possibile alla crisi, a quelle parole che oggi si inanellano come un mantra: bella-l’idea-ma-non-ci-sono-soldi ecc ecc. La storia della Popular Shakespeare Kompany comincia da qui, ed è subito un atto d’amore per il teatro. Il suo ideatore è Valerio Binasco, uno degli attori, poi anche regista, delle generazioni cresciute negli anni Novanta più carismatico e lontano da ogni classificazione. In scena sa accordare le emozioni semplicemente, e in profondità: dolore, sdegno, strafottenza, dolcezza, seduce senza accattivare. Al cinema riempie lo schermo, presenza forte ma non invasiva, voluto da quegli autori – come Mario Martone – di un cinema che sposta di continuo lo sguardo.
L’esordio della Popular Shakespaere Company è Romeo e Giulietta con Riccardo Scamarcio, poi arriva La Tempesta (in scena da stasera al 16 marzo, al Teatro Vascello di Roma), e Il Mercante di Venezia con Silvio Orlando. Shakespeare è nel destino di Binasco, che è stato tra i protagonisti della magnifica Trilogia di Shakespeare al Teatro Garibaldi di Palermo diretta da Carlo Cecchi. Ma non è solo il caso, o il fato, che lo hanno portato alla PSK. «A un certo punto ho capito che qualcosa nel mio lavoro si era rotto» racconta nella mattina romana di primavera prima del debutto. Le parole corrono via, un torrente. Lui ci ride: «Fermami se parlo troppo che non mi offendo». La rivelazione accade al Teatro della Tosse di Genova, la città dove ora Binasco vive – «Piaceva ai miei figli, l’hanno scelta loro. Roma è bellissima, quando arrivi e vedi questo cielo rimani incantato. Da attore andava bene, una vita fantastica, ma se devi fare con la realtà, la burocrazia, i bambini piccoli diventa impossibile. E poi ho l’impressione che ora sia molto aggressiva». Binasco era in scena con Sonno di Jon Fosse, «una delle cose migliori che ho fatto, e guarda che non mi piace mai farmi dei complimenti. Lo spettacolo aveva avuto recensioni ottime, il premio della critica ma alla sera in teatro c’erano al massimo quaranta/cinquanta persone. Così mi sono detto, bene da domani si fa Romeo e Giulietta. Sapendo però che ho fatto Pinter, Beckett… Ma ho il dovere di ricostruire col pubblico un rapporto di fiducia. Così è cominciata la vicenda della Popular Shakespeare Company.

E poi?

Con Romeo e Giulietta la nostra esperienza sembrava destinata a chiudersi, ricevevamo soltanto una serie di «Non si può» a ogni proposta. La crisi del settore ha rivelato le persone per quel che sono, spesso i problemi economici sono un’alibi per nascondere la mancanza di coraggio. Il teatro è un’arte antica, ma oggi a chi si rivolge? Qual è il suo posto nel mondo? Negli ultimi anni sembra essere stato risucchiato nella congrega dei ministeri e degli assessorati che si chiamano «alla cultura» e con l’arte non hanno nulla a che fare. Noi volevamo riconnetterci a un pensiero politico che vuole bene all’arte ma questi signori, e parlo anche della sinistra, non sembrano amarla. Allora mi sono detto: «Ricominciamo dal pubblico», che significa in uno scenario devastato come quello in cui siamo oggi, trovare di nuovo un rapporto sano, farlo ridere, farlo piangere, farlo pensare raccontando favole antiche che sono metafore politiche di poesia e di verità. Come è, appunto, La Tempesta.

In effetti a volte si ha l’impressione che il ruolo del teatro venga sottovalutato, spinto ai margini, o costretto a una dimensione autoreferenziale.

La mia paura è che finisca come l’opera, che sparisca dalla società per diventare un fenomeno riservato a pochi. Mia nonna andava all’opera normalmente, adesso a parte un pubblico specialistico non ci va più nessuno. C’è questa convinzione che la Cultura, a cui il teatro fa riferimento, sia un rito per poche classi, e non c’è nulla di più sbagliato. Quando abbiamo cominciato con la PSK, con l’idea di mettere in scena ogni anno un testo di Shakespeare, volevamo crederci, e utilizzare ciò che avevamo a disposizione, gli strumenti del teatro che ci permettono di essere artefici del nostro fare. Abbiamo messo al centro la recitazione, i grandi studi del Novecento, e la traduzione di quel lavoro fatta da maestri come Brook, Strasberg, che adattano il mondo teatrale all’attore. L’apparato è una bugia, che ci vuole per carità, ma che va selezionata. Siamo tornati allo spirito degli anni ’60, quando si diceva che per fare un transatlantico basta una seggiolina… Abbiamo fatto La Tempesta con un bastone trovato lungo il fiume, e un sasso. Però non è una messinscena concettuale, anche se qualcuno ha storto il naso, dicendo che trattiamo Shakespeare con troppa disinvoltura. Ma non è colpa nostra se i suoi testi sono così contemporanei, e rivendicano di essere riadattati.

Ecco, che «Tempesta» è quella della PFK?

Il testo contiene all’origine una metafora del nostro tempo, racconta un naufragio come quello dell’epoca storica in cui viviamo. Ci sono due temi principali: il primo è la vendetta, Prospero è un uomo usurpato dal suo ruolo. Il secondo è il potere, nessun testo ne è così ossessionato come questo. C’è un’immagine che lo rende visivamente, le mani che si stringono intorno a quel potere, e da sé mi sembra molto attuale. Le mani strette sono il simbolo della Tempesta, la sua magia è invece quando Prospero le allarga, e lascia cadere la bacchetta arrendendosi. Il mondo vecchio è finito, era un orrore, ora ne arriva un altro attraverso questo suo perdono tragico. Ripeto, non è difficile vedervi il presente, ma la contemporaneità deve essere poetica e non diretta.

 

Dicci qualcosa degli attori, da che esperienza arrivano?

Molti hanno già lavorato con me in altri spettacoli, frequentato i miei laboratori, preso parte a Romeo e Giulietta. Condividiamo un modo di pensare il nostro mestiere.

Come significa questo «nuovo rapporto col pubblico» possibile?

Per prima cosa è l’energia di un accadimento che deve essere fruibile in modo verticale, anche da chi a teatro va la prima volta, e si emoziona non per le idee ma per gli avvenimenti. In Italia il teatro degli attori è al 90% quello del capocomico, Il che può generare molti equivoci, per esempio la mancanza dell’ensemble, delle grandi compagnie che sono molto forti all’estero. Mi piace pensare alla possibilità di andare a teatro con occhi puliti, ricominciando daccapo ogni volta. In testa ho un’immagine, Londra bombardata con l’uomo che consegna il latte e suona alle porte in piedi tra le macerie. Vorrei poter fare lo stesso.

Hai da poco terminato le riprese del nuovo film di Mario Martone, «Il giovane favoloso» dedicato a Leopardi. E stai per iniziare il prossimo film di Claudio Cupellini, «Alaska».

Il film di Martone è un’opera di grande coraggio, un atto di amore sincero e devoto verso Leopardi, che Martone sa far diventare contemporaneo rendendolo un mito del cinema oggi. Cupellini che non conoscevo mi sembra bravissimo. Ho letto la sceneggiatura che mi ha conquistato. Sa rendere un grado di realtà nelle cose che è davvero fuori dal comune.