Di fronte ai tentativi di riforma che hanno la pretesa di rendere i tempi istituzionali coerenti con le accelerazioni imposte dal mercato globale, la costituzione torna a essere considerato un baluardo in difesa della società. Assume cioè i caratteri di un testo sacro che, idealizzando il passato democratico del welfare state, consente di immaginare un altro futuro, mentre opera quale strumento profano di organizzazioni politiche e procedure finanziarie sovranazionali, come mostra l’introduzione del pareggio di bilancio. Paradosso che segnala la debolezza di ricostruire attorno al testo costituzionale un vocabolario politico rivolto a una nuova costituzione materiale del lavoro, della solidarietà sociale, del bene comune.

Il volume di Paola Rudan L’inventore della costituzione. Jeremy Bentham e il governo della società (il Mulino, pp. 256, euro 24) ha il merito di innovare gli studi su un autore poco studiato anche per via della sua difficile classificazione nelle categorie politiche del secolo scorso. L’inventore della costituzione fornisce infatti un’articolata lettura dell’affermazione della costituzione quale pietra angolare del processo di formazione dell’ordine moderno in seguito alla frattura imposta dalle rivoluzioni atlantiche. L’autrice ricostruisce così la complessa costellazione storico-concettuale delle sue opere all’interno delle quali viene «inventata» la costituzione: rivoluzione e riforma, società e mercato, proprietà, lavoro e povertà, governo, opinione pubblica e management definiscono un quadro interpretativo che rende più che mai attuale il pensiero di chi aveva 28 anni quando le colonie nord-americane dichiararono l’indipendenza, 41 quando fu presa la Bastiglia; e moriva il giorno prima che il Reform Bill del 1832 diventasse legge.

Il filosofo dell’utile è calato nel suo tempo per essere liberato da categorie che, se ne hanno tenuta viva l’eredità nel secolo scorso, rischiano oggi di ridurlo a un «cane morto» dopo esser stato celebrato come liberale per eccellenza e padre del costituzionalismo o, all’opposto, dopo esser stato criticato come anticipatore di forme totalitarie (panopticon), ignorando il fatto che nella sua riflessione potere e libertà s’implicano reciprocamente e che il costituzionalismo non può essere ridotto a una tecnica di libertà per la limitazione del potere poiché comporta – specie nella sua accezione democratica – una visione «totalizzante», amministrativa e organizzatrice della società volta a produrre la «maggior felicità per il maggior numero». Nel suo saggio, l’autrice mette così a fuoco l’invenzione della costituzione maturata nella opera di Bentham, dal Frammento sul Governo (1776), agli scritti su povertà e indigenza elaborati nel corso della rivoluzione francese, al Codice costituzionale (scritto negli anni Venti e pubblicato postumo nel 1841).

Il codice utilitarista

Si tratta di una gliglia interpretativa indicata dallo stesso Bentham. Nel momento in cui riflette sull’indipendenza americana sostiene che la legittimità del governo non dipende dalla sua aderenza alla tradizione costituzionale del common law britannico o all’ipotetico stato di natura del giusnaturalismo, bensì dalla sua efficacia. Poiché la rivoluzione si dà quando il governo non è più conforme all’interesse dei coloni, allora la costituzione deve essere un calco dela società, deve cioè essere capace di avere presa sugli interessi degli individui. Dal Frammento sul Governo deriva dunque l’esigenza di realizzare una perfetta corrispondenza tra organizzazione istituzionale e movimento della società.

Questa esigenza diventa tanto più cogente quando, con la rivoluzione francese, poveri e indigenti entrano sulla scena politica avanzando pretese d’uguaglianza incompatibili con le gerarchie della ricchezza sociale. Bentham guarda allora dentro la società per isolare, definire e rendere universalmente valido il codice sociale dell’utile, del rispetto della proprietà e dell’impegno nel lavoro. Mentre i suoi contemporanei celebrano il mercato, egli individua i limiti della sua normatività, riconoscendo così la società come irrisolto problema politico dell’ordine moderno. Essa regola gli interessi in un gioco a somma positiva solo finché tutti ne sono partecipi, ma il meccanismo incrementale s’inceppa quando l’indigenza muove un numero crescente d’individui fuori dal mercato. La sua proposta di istituire le industry houses per riportare poveri e indigenti al lavoro secondo una disciplina adeguata alla nascente grande fabbrica è quindi pensata per ripristinare la normatività sociale: tutti gli individui devono poter ricercare la felicità attraverso il lavoro.

Se povertà e indigenza innescano pericolose parzialità che incrinano il corso «naturale» del mercato, allora la costituzione deve difendere la società risolvendo il dilemma shakespeariano dell’individuo senza proprietà: «lavorare o non lavorare – questo è il problema». Il filosofo dell’utile getta così le fondamenta sociali dell’edificio costituzionale formalizzando specifiche figure democratiche: il governante assume le sembianze del manager delle industry houses; la rappresentanza funziona come una tecnologia sociale che trasforma gli elettori in azionisti di un governo chiamato a soddisfare i loro interessi; l’opinione pubblica diviene un tribunale che stabilisce le giuste relazioni fra le classi sociali e fra moltitudine e governo; la democrazia – la cui matrice teorica è ricondotta al serrato confronto con i Federalist Papers – ha una caratura amministrativa. Sfugge cioè alla classica definizione delle forme di governo per diventare un complesso istituzionale di management della società che, attraverso funzioni ispettive, statistiche e normative, ottimizza la gestione delle risorse e l’efficacia dei servizi.

Aperta e malleabile

La costituzione diviene infine codice costituzionale. Bentham non si limita a definire il rapporto fra potere e libertà, diritto e diritti, governo e mercato. Ingloba infatti il capitalismo nell’organizzazione positiva della costituzione, stabilendo così un’indispensabile cinghia di trasmissione fra politica e società. Per questo è aperta e malleabile, capace non soltanto di inscrivere gli individui nella normatività sociale, ma anche di riportare all’ordine parzialità antisociali, allontanando così il disordine e l’eventualità sempre presente della rivoluzione. Il Codice costituzionale rimane in questo senso un’utopia, coerentemente con la delirante ambizione illuminista del suo autore di essere «legislatore del mondo».

La sua mancata realizzazione rimanda all’attualità della costituzione quale espressione dell’irrisolto problema politico della società, tanto più cogente quanto più questa diviene un ordine globale: non come luogo solidale d’integrazione sociale e godimento del benessere, bensì quale spazio riservato al mercato. Parafrasando Bentham, possiamo dire che l’intera società è oggi «casa dell’industriosità». Per interrogarsi sul futuro della costituzione è dunque necessario tornare al suo «inventore» e chiedersi quale sia la cifra politica della continua «giuridificazione» sovranazionale delle relazioni che segnano i processi di globalizzazione. Tornerebbe allora utile la sprezzante battuta di Marx, per il quale nell’ambito costituzionale della circolazione regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham.