Il lettore non si faccia ingannare dal numero delle pagine. La festa dell’insignificanza (traduzione di Massimo Rizzante, pp. 128, euro 16,00), il più recente romanzo di Milan Kundera, poco più di centoventi pagine, non è un testo breve come l’edizione a stampa lascia intendere: esige infatti più di una lettura, così che le corde segrete delle storie narrate possano risuonare nella loro complessità. Uscito per Adelphi in prima edizione mondiale e dopo un lungo silenzio (L’ignoranza, il precedente, era apparso nel 2001), Kundera è tornato al romanzo e ai temi e ai personaggi che il lettore riconosce come tipici dello scrittore (il riso, il dispotismo, la corporeità nei suoi aspetti più prosaici, l’inautenticità e la contraffazione). Tutto ciò con il consueto spirito satirico e demistificatorio, dietro cui si muovono ancora una volta le ombre di Nietzsche, Rabelais e Cervantes. Lo sfondo è la Parigi dorata dei giardini del Lussemburgo. Uno scenario imponente contro il quale la mediocrità dei personaggi disegnati risalta con nettezza. Ciascuno di essi recita una particina assolutamente dimenticabile: nulla di eroico, nulla che possa essere sottratto all’azione corrosiva del tempo. Eppure tutto quello che qui accade ha la dimensione dell’allegoria e va a collocarsi su un fondale che svela la necessità totale di ciò che è inessenziale.

Come ne L’ignoranza, qui abbiamo ancora una volta il problema dell’azione reciprocamente contrastiva del ricordo e dell’oblio. In quel romanzo l’azione narrativa lavorava sugli inganni generati dalla memoria, la cui azione lenta e meticolosa diventava una variante della creazione, sia pure estenuata e volta all’indietro, capace di mettere in piedi un teatro legittimato solo in termini di soggettività: se c’è il potere di tenere desto e vivo il ricordo dell’altro, c’è anche il potere di cancellarlo lasciandolo precipitare nel baratro del nulla. Con La festa dell’insignificanza, un’opera ancora una volta polifonica con disseminazione di punti focali in vari personaggi, il tema viene trattato da un punto di vista complementare e ancora più dissacrante: di vivo non ci può essere più nulla; vivi e morti abitano il medesimo spazio. Questo a conferma della distinzione sempre ribadita tra vivere (ripetizione meccanica) ed essere (essere consapevole dell’eterno e infinito ridicolo).

Nel romanzo si incastrano le storie di quattro personaggi (Alain, Ramon, D’Ardelo, Caliban) legati da un rapporto con un quinto personaggio, Charles, ritagliato sul profilo dell’autore stesso. Charles è l’autore di una pièce di marionette su Stalin e i suoi collaboratori e rappresenta perciò colui che ha raggiunto il massimo della consapevolezza e della capacità di ridere di ogni cosa. Sua la messinscena della buffoneria di uno Stalin che rinomina Königsberg, la città di Kant, Kaliningrad per eternare la fama di un uomo il cui eroismo consisté tutto nel lottare contro le esigenze impellenti della propria vescica e non abbandonare le riunioni con il piccolo padre. Charles ha dunque il potere di eternare, di ridurre a marionette i personaggi che la Storia gli consegna. Come Stalin ha fatto con Kalinin, lo scrittore può sottrarre all’oblio qualcosa che però è assolutamente insignificante (Stalin) e lo fa per riderne senza alcun rispetto. Tutto viene schiacciato dalla risata di Kundera, tutto abbassato al livello minimo, quello del ridicolo. La storia è un pulviscolo di cenere che non può più tornare fuoco. Kant e Schopenhauer sono chiamati in causa e le loro tesi messe alla prova dei fatti. La cosa in sé kantiana, dice la marionetta Stalin, non esiste. Il mondo è mera rappresentazione che regge finché dura l’azione di una volontà forte e determinata. Quando quella volontà si indebolisce, il mondo da lui creato si affloscia e muore. «I morti invecchiano, nessuno se ne ricorda più e spariscono nel nulla; solo alcuni, pochissimi, lasciano i loro nomi incisi nella memoria ma, privi di una testimonianza autentica, di un ricordo reale, si trasformano in marionette». Ecco che la storia dell’Urss e quella della Rivoluzione francese, ancora una volta congiunti nella prospettiva messa in piedi da Kundera, diventa una storia di marionette, di personaggi da pantomima, manovrati e resi oggetto di riso.

L’immagine iniziale è quella di Alain che contempla gli ombelichi delle ragazze cui la moda impone pantaloni a vita bassa e magliette corte. A partire da questi ombelichi ostentati con leggerezza e disinvoltura Alain scende a considerare i poli di attrazione rappresentati dalle donne e conclude che mentre natiche, seni e cosce differenziano sempre una donna dall’altra, l’ombelico è uguale per tutte e rende le donne indistinguibili una dall’altra. Da questo dettaglio messo in evidenza dalla moda e dalla sua futilità, il narratore arriva a formulare l’eterna ripetizione della nascita e dunque a confermare l’illusorietà dell’essenza individuale.

Ma questo è soprattutto un libro di paradossi. Alain venera non il ritratto del padre che gli è sempre rimasto al fianco, ma il ritratto della madre, quella madre che aveva cercato di suicidarsi pur di uccidere il figlio che portava in grembo e che poi lo aveva abbandonato bambino. Con quel ritratto l’uomo intrattiene prolungati colloqui. I morti dunque escono dal loro recinto e si intromettono nel mondo di coloro che si considerano vivi. Per Kundera, lo aveva affermato anche nell’Immortalità, la vera indifferenza verso l’assurdità delle vicende umane può generarsi solo dopo la morte, ed è anche necessario che passi un certo tempo dopo la morte perché questo sia possibile. Ed è questa la condizione del narratore: esterna e distante. La prostata ingrossata di Kalinin e la sua eroica resistenza a non correre al gabinetto durante i discorsi di Stalin, la masticazione dei cibi, l’abbattimento delle statue, la caduta degli angeli, sono processi che riconducono al basso, all’infimo, una materialità calpestabile. Su tutto questo, sullo scenario della caduta grande o piccola (il comunismo o la bottiglia di Armagnac) aleggia il riso acre di colui che ha trovato un punto da cui poter guardare senza coinvolgimenti lo spettacolo della trasformazione e della degradazione cui tutto ciò che appartiene alla vita è soggetto. Dunque la prospettiva del narratore non può che essere quella di chi ha conseguito la condizione della perfetta indifferenza, di chi avendo assistito all’assassinio dell’utopia, abita definitivamente nella casa della cenere e della morte.

Tutto questo viene raccontato per lampi, fatto correre nel sottotesto, affidato più al silenzio che alle parole. Ed è la seconda lettura che permette di cogliere i meccanismi della crudeltà e della stupidità (le due ruote su cui il mondo corre da sempre a precipizio verso il nulla). I piani temporali su cui scorrono le vicende sono due, ma nelle ultime pagine si mischiano nella forma di una parata carnevalesca che mette sulla scena la buffonesca anima del mondo a esaltazione dell’insignificanza, che è «l’essenza della vita. È con noi ovunque e sempre». Quaquelique, il prototipo dell’uomo insignificante, è l’eterno seduttore che cattura l’attenzione delle donne con la banalità e la stupidità delle sue osservazioni. Il suo ruolo, che di per sé sarebbe privo qualsiasi interesse, ha il potere di tenere in piedi l’eterno meccanismo della commedia umana perché di fatto è lui che conquista le donne. Dunque l’insignificanza è la sola materia prima di cui è fatto l’intero universo, l’unico elemento del quale la vita nella sua cieca pulsione a perpetuarsi non potrà fare mai a meno e che non potrà mai distruggere, ma anche l’unico di cui si nutre l’umorismo – di marca dichiaratamente hegeliana – che rende sopportabile il mondo intero.