La Rete è il regno della democrazia dove il potere di decisione è nelle mani, pardon, nel mouse del popolo. Ma cosa è questa aberrazione? Il web, più che l’eden in Terra, è il luogo dove si sta uccidendo la democrazia. Sono queste le posizioni che si contendono la scena da quando Internet è diventata in Italia, al pari di molti altri paesi europei e non solo, l’habitat emergente della comunicazione sociale e politica. Due attitudini analitiche apparentemente oppositive, ma invece speculari l’una con l’altra e incapaci di fare i conti con la dimensione «universale» della Rete, di essere cioè un’infrastruttura tecnologica che ha ormai inglobato i media esistenti, favorendo l’osmosi di format comunicativi da un media all’altro, come testimonia il fatto che la discussione on line ha sempre più lo stile apodittico del talk show dove si confrontano posizioni già note e che non aggiungono niente di nuovo; oppure come i social network, più che valorizzare l’incontro tra diversità, alimentano la costruzione di comunità virtuali sempre più autoreferenziali, negando così la loro supposta vocazione «inclusiva». Internet è infatti un «tecnosistema» che non ammette stili enunciativi diversificati da quelli postulati dal senso comune.

Tale realtà non è tuttavia una specificità italiana, ma riguarda sempre più la comunicazione sociale, politica dentro e fuori lo schermo, come ha più volte scritto Evgenij Morozov, studioso sì conservatore, ma assiduo frequentatore della Rete che ha rivolto alla presunte virtù liberatrici del web critiche corrosive che meritano attenzione. A partire dal suo consiglio di guardare a Internet non come a un luogo «neutro», bensì come un luogo attraversato dalle logiche di potenza degli Stati e da ormai consolidate strategie di impresa. E visto che la comunicazione è sia materia prima che la merce che viene prodotta, ogni discorso che la riguarda deve passare al vaglio di una analisi di come quella materia prima viene lavorata e poi usata, in quanto merce, per fare profitti. Quel che è chiaro è che i contenuti, compresi quelli politici, sono l’esito di un processo produttivo che vede la dimensione politica ridotta a macchina organizzativa di quel processo produttivo.

Gli apprendisti stregoni

L’Italia, quindi, presenta le caratteristiche di un laboratorio dove apprendisti stregoni sperimentano un uso spregiudicato della Rete in presenza, appunto, di una crisi della democrazia. Affermare che la Rete sia il luogo della democrazia diretta o il regno in cui, all’opposto, la «mente» di uomini e donne è colonizzata è un’operazione di occultamento di questa realtà. Infatti, più che di democrazia diretta bisognerebbe parlare di costituzioni di reti sociali identitarie dove la coppia «amico/nemico» è resa operativa attraverso la denigrazione sistematica dell’Altro. E dove, più che di menti colonizzate siamo in presenza di un processo di espropriazione dei contenuti da parte di imprese economiche. E politiche.

È di lunedì la notizia che il Movimento 5 stelle ha indetto un referendum vincolante per i parlamentari per decidere se i migranti «clandestini» debbano essere sbattuti in prigione o in quei postmoderni lager che sono i Cie. Gli altri media, giornali e televisioni, hanno valutato variamente il fatto che la maggioranza dei votanti al referendum – tutti rigorosamente accreditati come partecipanti alla vita on line del movimento – ha deciso che la clandestinità dei migranti non è reato. Pochi editoriali e prese di posizione hanno invece sottolineato che quell’uso della Rete sta alla democrazia come le istituzioni militari stanno all’assenza di gerarchie. Sulla critica a questa rappresentazione il rinvio è a quanto hanno scritto, senza prendere troppo il largo, Norma Rangeri e Alessandro Dal Lago su questo giornale (14 gennaio). Nello stesso giorno dell’iniziativa referendaria dei pentastellati uno dei giornali più diffusi in Italia (La Repubblica del 13 gennaio) pubblicava una lunga riflessione sulla crisi di fiducia degli italiani verso lo Stato di una delle sue firme più prestigiose, Ilvo Diamanti, nella quale la Rete è considerata il motore propulsivo di una delegittimazione delle forme consolidate della democrazia moderna – le istituzioni statali e i partiti politici -, scambiando l’effetto con le cause del discredito che hanno accumulato nel tempo.

A colpire, del testo di Diamanti, non è il punto di partenza (la crisi della democrazia, appunto), ma la sicurezza dell’editorialista, nonché «studioso della società», nel vedere nella presa di parola – scomposta certo, rabbiosa va da sé, frequentemente «populista» – il male della democrazia. Un paradosso logico – la presa di parola è un atto democratico di critica al potere costituito – al quale si era applicato già Aristotele con il risultato che il filosofo greco considerava inevitabile la degenerazione della democrazia in oligarchia a causa proprio di quella indistinta presa di parola degli uomini liberi nell’agorà. La dubbia linearità delle forme di governo delineata da Aristotele ha come centro l’agorà, cioè la piazza del mercato, uno spazio urbano e sociale dove la discussione sulla cosa pubblica confinava, e spesso si sovrapponeva alla gestione degli affari privati. Di questa pericolosa vicinanza tra economia e gestione della res publica occorre tener presente le conseguenze empiriche quando si discute di crisi contemporanea della democrazia, dove le le piazze sono diventate merce rara e la Rete è un loro potente sostituto. È quindi abbastanza comprensibile che nel web si addensino proprio le dinamiche della sfera pubblica, dove la discussione viene ridotta a confronto tra indifferenziate ed equivalenti opinioni. È questo il limite della comunicazione on line più che la paventata delegittimazione dei partiti politici paventata da Diamanti, che ha origine nella trasformazione di queste istituzioni intermedie tra la società e lo Stato in«dispositivi» che organizzano, promuovono e consolidano la riduzione del politico a variabile dipendente dell’economico.

Dunque l’economico e il politico hanno nella Rete il punto sulfureo di fusione, tanto che è impossibile distinguere la promozione della discussione pubblica dalla sua gestione imprenditoriale – che deve produrre cioè profitti – della medesima. Il web è dunque il luogo dove «il conflitto di interessi» è la costante di chi organizza forum, blog e siti che provano a dare una forma politica istituzionale a movimenti d’opinione. Una caratteristica che non è solo prerogativa del movimento 5 stelle, ma che ha riguardato i gruppi di supporto ai candidati democratici negli Stati Uniti – gli ideatori di «Move on» sono imprenditori della Silicon Valley, mentre uno degli animatori della campagna elettore di Barack Obama, Chris Hughes, è stato anche uno dei fondatori di Facebook- o ai movimenti d’opinione in molti paesi dell’Est Europeo.

La Rete, in quanto «medium» che ingloba i media old style in crisi di credibilità come la televisione, è quindi il luogo dove precipita una crisi della democrazia originata fuori dallo schermo e dove prendono forma via di uscita da quella stessa crisi. In tempi non sospetti Colin Crouch, uno studioso che non ha mai nascosto le sue simpatie per il partito laburista inglese, ha scritto che i regimi politici contemporanei hanno assunto sempre più una caratteristica postdemocratica, sono cioè regimi che garantiscono le libertà fondamentali – questo vale per l’Europa e gli Stati Uniti, per altre latitudini il discorso è meno lineare – ma stabiliscono impalpabili e tuttavia insormontabili barriere d’ingresso ai movimenti che vogliono trasformare i rapporti sociali. Nella rete si ha dunque il riflesso di tale mutamento. Ilvo Diamanti rimuove tutto ciò. E nel fare questo, non si accorge che è la riduzione del politico a variabile dipendente dell’economico a rendere la democrazia diretta l’espressione più gettonata per qualificare le relazioni sociali e politiche dentro Internet, presentandole come alternative a quelle «dominanti».

Il ritorno dei trolls

Una democrazia diretta che irride alla mediazione, mentre il consenso è cercato solo tra i simili. A ogni voce dissonante sono così riservati l’invettiva e il turpiloquio, fenomeni che sono stati sempre presenti in Rete – i flame, i fake, i trolls sono forme specifiche di denigrazione che puntano a cancellare ogni dialettica tra punti di vista diversi. Una logica «identitaria» che alimenta la standardizzazione e le semplificazioni delle posizioni in campo, cioè le caratteristiche tanto aborrite dei media old style. Soltanto che, a differenza della televisione e dei quotidiani della carta stampata, non c’è una regia preposta, né un conduttore, bensì la definizione di diffuse tecnologie del controllo. Più che combattere un grande fratello, la democrazia diretta della Rete è la manifestazione di dieci, cento, mille piccoli fratelli che sorvegliano, intervengono allor quando un «alieno» approda in un sito, un blog che fa parte di un’impresa politica che ha definito i nemici e contempla solo ossequiosi amici.

È questa una approssimativa fenomenologia della Rete che considera importante la critica del «tecnosistema» rappresentato dal Web come un compito urgente, per non rimanere ingabbiati tra una visione apocalittica e una visione integrata della Rete. Le tesi dei tanti disincantati della rete – tra i quali annoverare studiosi come Nicholas Carr, Jason Lanier e i molti fulminati sulla via di Damasco e diventati, da entusiasti agit prop della nefasta utopia della Rete come regno della libertà, detrattori della vita on line – o quelle ancora incantante da Internet (Clay Shirky, Dan Tapscott o Howard Rheingold) impediscono di cogliere quel continuo processo di espropriazione dei contenuti compiuto in nome della democrazia diretta o del libero mercato. A questo punto, più che parlare di grande fratello o della libertà assoluta costituita da cliccare mi piace sui social network o di scaricare il proprio risentito in un commento, occorre volgere lo sguardo su come vengono costituite le «nuvole» di dati, come vengono assemblati i big data che rendono la vita un profilo da vendere al miglior offerente. E questo non riguarda solo le major della Rete come Google o Facebook, ma anche quelle imprese politiche che vogliono rappresentare «l’inverno del nostro scontento».