Quando nel 1965 Marietta Cudakova venne assunta alla Sezione Manoscritti della Biblioteca Lenin di Mosca con tutta probabilità doveva nutrire il sospetto – se non la certezza – che l’imponente edificio in cui avrebbe lavorato custodisse al suo interno una sorta di doppio fondo: quei cosiddetti depositi speciali in cui occhiuti censori avevano relegato le opere degli scrittori sovietici caduti in disgrazia, sottraendole alla circolazione e destinandole così all’oblio. Eppure i meccanismi impercettibili della censura si sarebbero curiosamente materializzati al suo sguardo solo verso la fine dell’anno seguente, sotto forma di due spessi fascicoli della rivista letteraria «Moskva», resi ancora più voluminosi da innumerevoli fogli dattiloscritti infilati tra una pagina e l’altra.
Presentando al pubblico il testo inedito del Maestro e Margherita, i redattori del periodico diretto da Evgenij Popovkin l’avevano infatti sottoposto a tagli talmente spietati da indurre la vedova di Michail Bulgakov, Elena Sergeevna, a diffondere le parti espunte tra i suoi conoscenti, con tanto di indicazioni su dove andassero inserite. La prassi autarchica del samizdat – la riproduzione clandestina di testi inediti o difficilmente accessibili, veicolata dagli stessi lettori – ripristinava così, seppur in forma inevitabilmente artigianale e precaria, l’integrità di un’opera custodita per anni dalla terza moglie dello scrittore nei propri cassetti in forma manoscritta. Appare dunque singolare che la Cudakova affermi di essersi resa conto per la prima volta dell’onnipresenza della censura in Urss solo di fronte agli esemplari «manipolati» di «Moskva» – ossia quando l’iniziativa individuale dei lettori aveva permesso di rimediare almeno in parte ai suoi effetti deleteri. Nel contempo, fu proprio l’immagine paradossale di un testo a stampa reso più fedele all’originale da appendici dattiloscritte «spurie» a ispirare all’ex collaboratrice della Biblioteca Lenin (non a caso autrice di un pregevole studio sulle diverse ipostasi testuali del libro e del manoscritto) l’idea di ricostruire il tormentato percorso esistenziale dello scrittore nato a Kiev nel 1891.

Il risultato è un classico tra le biografie letterarie edite in Russia, quel Michail Bulgakov Cronaca di una vita, pubblicato per la prima volta a Mosca nel 1988 e ora proposto dalla casa editrice bolognese Odoya nella traduzione di Claudia Zonghetti (pp. 480, euro 30,00). Intessuto sull’ordito delle tante narrazioni parallele pazientemente carpite alle persone più vicine a Bulgakov (innanzitutto le tre mogli, ma anche la sorella Nadežda), Cronaca di una vita mira a smentire la vulgata che accompagnò la parziale riscoperta dello scrittore negli anni sessanta e cioè che quest’ultimo avrebbe trovato un inaspettato benefattore in Stalin, il quale, prodigandosi per farlo assumere come aiuto regista di Konstantin Stanislavskij al Teatro dell’Arte di Mosca (MChAT) nel 1930, lo avrebbe messo al riparo dagli attacchi dei suoi veri nemici, i «malevoli critici ebrei», permettendogli finalmente di esprimere appieno il suo talento. Sulla scorta del diario della moglie Elena Sergeevna e della corrispondenza dello scrittore con familiari e amici, la Cudakova dimostra invece come la censura – ben lungi dallo stravolgere soltanto il romanzo maggiore di Bulgakov, tardivamente pubblicato nel 1966 – fosse stata per lui una presenza imperscrutabile e ossessiva fin dai suoi esordi letterari. Non c’è da stupirsi, visto lo sfavore con cui il futuro scrittore, medico al seguito dell’Armata Bianca in Caucaso durante la guerra civile, aveva accolto entrambe le rivoluzioni del 1917, nonché la definitiva presa del potere da parte dei bolscevichi. Lungi dal sorvolare sulle posizioni filozariste di Bulgakov (sottaciute a loro tempo dalle sorelle, che temevano di compromettere la pubblicazione delle sue opere negli anni precedenti la perestrojka), l’autrice mostra come tali orientamenti politici si inquadrassero in una visione del mondo decisamente conservatrice, che si riverberava anche sui suoi gusti letterari, sulla predilezione esclusiva (e terribilmente démodé, in tempi di avanguardia) per i classici dell’Ottocento, innanzitutto Gogol’ e Tolstoj. «Ma che cosa vi aspettate da Michail?» pare che un giorno avesse chiesto in tono sarcastico lo scrittore Il’ja Il’f ai redattori della rivista «Gudok», cui collaboravano entrambi. «Si è appena rassegnato all’idea che sia stata abolita la servitù della gleba, e voi volete che accetti già il potere sovietico!».

Da qui la sensazione di essere «una macchina astrusa, capace di produrre solo ciò di cui l’Urss non ha bisogno» che tormenterà lo scrittore a partire dalla metà degli anni venti, quando, dopo i successi di Cuore di cane e Uova fatali, la pubblicazione in fieri del romanzo La guardia bianca verrà bloccata dalla censura, in quanto «apologia incontrovertibile dei Bianchi». Dall’uscita della seconda edizione di Diavoleide nell’aprile 1926 fino alla morte sopraggiunta anzitempo nel marzo 1940, Bulgakov non riuscirà più a pubblicare una sola riga in patria, e per sbarcare il lunario sarà costretto a una frenetica attività teatrale (in veste di autore, regista, adattore e persino di attore) ben lontana dall’idillio tratteggiato dalla critica sovietica negli anni sessanta. Di certo ridurre per il teatro di Stanislavskij testi a suo giudizio impossibili da portare sulle scene come le Anime morte non doveva corrispondere esattamente al suo ideale di libertà creativa, se in una lettera si chiederà rabbrividendo quali altri adattamenti gli avrebbe riservato il futuro, dopo il capolavoro di Gogol’ e Guerra e pace: «Guardo la libreria e mi spavento: chi mi toccherà domani? Turgenev? Leskov? L’enciclopedia di Brockhaus ed Efron? Ostrovskij? No, lui per fortuna ci ha pensato da solo, prevedendo che cosa mi sarebbe capitato fra il 1929 e il 1931».

Da questo punto di vista – la mortificazione di ogni slancio originale, l’eterna sottomissione ai disegni imperscrutabili della censura – il destino di Bulgakov ricorda quello dei poeti appartenenti alla sua stessa generazione («dissipata» dal potere sovietico, secondo la celebre formula di Roman Jakobson), cui pure lo scrittore non era legato da eccessiva simpatia (certamente non nel caso di Majakovskij, ma neppure in quello di Mandel’štam). «I teatri finalmente liberi da Bulgakov», titolerà dal canto suo la «Vecernaja Moskva» il 6 marzo 1929, allorché la pièce sulla guerra civile I giorni dei Turbin sparì improvvisamente dal cartellone del MchAT dopo tre stagioni di rappresentazioni ininterrotte, per poi riapparirvi in modo altrettanto inspiegabile nel 1932. Non sorprende certo se, di fronte a svolte tanto repentine e surreali, lo scrittore lamenterà di non disporre di quella distanza dal presente che era ai suoi conditio sine qua non per non fare della satira il proprio registro esclusivo.

Il merito principale della biografia della Cudakova risiede nell’acume psicologico con cui ha saputo cogliere e restituire la fisionomia profondamente individualista di Bulgakov, lupo solitario ancor prima che outsider, animato da oscuri sensi di rivalsa legati alla sua origine provinciale, irrimediabilmente scettico nei confronti dell’esperimento rivoluzionario in corso in un paese che definiva senza mezzi termini «arretrato», e, nel contempo, più che propenso a idealizzare quell’Occidente che negli anni trenta cercherà ripetutamente di raggiungere, sia pur soltanto per qualche mese. Un altrove che resterà per sempre un miraggio, stante il tenace rifiuto delle autorità a concedergli il visto per l’espatrio. D’altronde, il sogno di «contemplare la Russia da una meravigliosa lontananza», come aveva fatto Gogol’ durante il suo soggiorno romano, si legava per Bulgakov alla percezione del baratro incolmabile che, a suo dire, la rivoluzione d’Ottobre aveva scavato tra l’Europa e la sua patria. Una sensazione che, a distanza di decenni, la Cudakova non esiterà a far propria, sforzandosi di riannodare i fili di una storia sepolta tra rimozione e non detto.