Vignola, provincia di Modena, venerdì di Pasqua 2011. Devis Bellucci, 33 anni, professione Assegnista di ricerca, vale a dire ricercatore precario, presso la facoltà di Fisica dell’università di Modena e Reggio Emilia, sta finendo di preparare i bagagli. Alla stazione lo aspetta un treno che lo porterà a Firenze, da lì a Pisa, poi a Carrara e, attraverso la Garfagnana, di nuovo a Vignola. Tutto farebbe pensare a una piacevole vacanza in compagnia della moglie Giorgia, anche lei ricercatrice, ma nel campo della chimica e di ruolo. Tutto farebbe pensare a una piacevole vacanza, se non fosse per la presenza di un bagaglio supplementare e decisamente ingombrante: le gigantografie della copertina e della quarta di copertina del romanzo che Bellucci ha pubblicato l’anno prima per la A&B editrice, L’inverno dell’alveare . Devis, a ogni tappa del viaggio, indosserà i due pannelli, trasformandosi in un uomo sandwich di americana e pubblicitaria memoria, e promuovere così il suo libro.

È solo l’inizio. Nel corso del 2011, il fisico e scrittore attraverserà tutta la penisola, con l’eccezione della Sardegna, camminando lungo le strade e le spiagge, scalando le colline che portano a borghi e paesi, fermandosi nel centro delle piazze, fedele al motto da lui coniato, «Se un libro non ha gambe per arrivare lontano, è giusto che le gambe le metta l’autore». Identica cosa si ripeterà l’anno dopo, con l’uscita di un nuovo romanzo.

Devis ha una faccia simpatica come l’accento emiliano che scandisce il suo racconto e i suoi ricordi. «I miei genitori sono quanto di più pragmatico esista, nel senso contadino del termine. Ho passato l’infanzia e l’adolescenza con mio padre che, quando mi vedeva con un libro in mano alle tre del pomeriggio, magari proprio un romanzo, mi diceva: ’Già finito di fare tutto quello che dovevi? Perché se non hai più niente da fare, te lo trovo io’. Per lui, studiare significava diventare ingegnere, medico o avvocato. Basta, non era concessa eventuale opzione. Tutti gli altri che studiavano, mio padre non sapeva bene cosa studiassero. Mi ero iscritto a ingegneria, poi sono passato a fisica. E il cambio di facoltà non gli era andato troppo giù».

Fin troppo facile immaginare papà Bellucci con le mani nei capelli quando il figlio decide di fare volontariato con un’associazione non governativa di Modena, prima in Bosnia, alla fine della guerra dei Balcani, poi in India, Albania, Kosovo e più volte nelle favelas di San Paolo. Da quelle esperienze nasce, è il 2008, La memoria al di là del mare (Giraldi Editore), cui seguono L’inverno dell’alveare, La ruggine e il recentissimo La sete dei pesci, tutti e tre per A&B. I capelli di papà Bellucci somigliano ormai alle spine di un porcospino. E assumono acconciatura da erinni quando Devis decide di iniziare il suo anomalo Grand Tour.

Già, Devis, a proposito: quando e da cosa è nata la tua vocazione di scrittore errante? «Entrando nelle librerie vedevo i titoli dei piccoli editori, compreso il mio, naturalmente, scomparire dagli scaffali dopo pochi giorni; li cercavo senza trovarli, chiedevo e nessun commesso ne sapeva niente. Allora mi sono reso conto che fuori dai grandi gruppi, il libri e chi li pubblica hanno le gambe mozzate. E ho deciso di mettercele io, le gambe».

Ma proprio perché solo di libri in generale non si vive, e anzi si rischia la fame, come sei riuscito a conciliare gli impegni di ricercatore universitario con i vagabondaggi dell’uomo sandwich; a coltivare gli affetti, visto che, nel frattempo, tu e Giorgia vi siete sposati, e sono arrivati la piccola Maia e il piccolissimo Filippo? E ancora: come sei riuscito a far quadrare i conti per i biglietti del treno, l’albergo, i pasti, con il bilancio familiare? «Sul piano del rapporto con Giorgia non ci sono stati problemi. Fino a due settimane prima della nascita di Maia abbiamo viaggiato sempre insieme, divertendoci moltissimo a vivere questa esperienza, che è servita a renderci uniti ancora di più. Quanto ai costi del viaggio, basta organizzarsi. Ancora adesso mi porto nello zaino le provviste da casa e dormo in treno, disteso se ci sono posti vuoti. Rispetto al lavoro, nel caso di un tragitto breve, parto verso le cinque del pomeriggio del venerdì e rientro la domenica sera. Su distanze più lunghe, scelgo un treno notturno sia all’andata che al ritorno. Il lunedì mattina sono all’università. Forse con un po’ di occhiaie, però puntuale. Queste sono le strategie che ho continuato ad adottare e che adotterò, con l’arrivo della bella stagione, per far conoscere La sete dei pesci. Ah, dimenticavo: Il primo investimento è stato molto modesto, 12 euro per stampare da un tipografo le gigantografie della prima e della quarta di copertina».

Adesso, se non siete persone troppo timide per indossarli, immaginatevi nei panni di un uomo sandwich. Camminate su una strada delle Alpi Apuane o lungo il Lago Maggiore, passate davanti agli ombrelloni in fila su una spiaggia di Orbetello, entrate ad Assisi e sostate davanti alla basilica, vi fermate al centro di piazza del Popolo a Roma o di piazza del Duomo a Milano. Logico, inevitabile, mettere in conto di sentirsi addosso gli sguardi della gente, captare commenti ironici, venir fermato da qualche curioso, essere oggetto di impietose risate infantili, trovarsi sbarrato il passo da un vigile urbano che chiede documenti e spiegazioni.

Logico, inevitabile. Ma assolutamente non vero nel caso di Devis. «Prima di tutto va detto che quando vado in giro per l’Italia adotto due atteggiamenti differenti. Se arrivo in luoghi tipo spiagge o strade, gironzolo, guardo il panorama, faccio una sosta e mangio uno dei miei panini. Capita che qualcuno dietro di me scatti qualche fotografia. E finisce lì. Se l’obbiettivo è piazza dei miracoli a Pisa, o piazza del Plebiscito a Napoli, sono solo due esempi, allestisco una messa in scena più provocatoria: mi tolgo il sandwich, lo stendo per terra al centro della piazza, vi accendo sopra una candela, mi allontano e riprendo con la telecamera o la macchina fotografica quello che succede. Cosa succede, o meglio cosa è successo nei due anni e mezzo di viaggi? Niente. Nessuno mi ha mai avvicinato, vigili urbani compresi, per chiedermi come mai mi trovassi lì, da dove venissi, cosa volessi dire con i miei cartelli e la candela, se fossi io l’autore del libro… La più totale indifferenza. Non so se mi pigliassero per matto, o pensassero di avere a che fare con un poveraccio. Ricordo gli unici due commenti, a Roma. Il primo in piazza del Popolo, da una signora: ‘Guarda questo che sta a fa’ pubblicità a basso costo’; l’altro da una mamma, in piazza Navona. La figlia, una bambina, stava fotografando il sandwich e lei la trascinò via rimproverandola: ’Con tutte le cose belle che ce so’ qui, te metti a fotografà ’na candela!’. Nel resto d’Italia, silenzio e disinteresse. Persino negli scompartimenti dei treni, con le gigantografie accanto a me, in uno spazio così piccolo, non ricordo nessuno sguardo di curiosità da parte degli altri passeggeri. Anzi: sono sicuro che non ci sia mai stato».

Uno potrebbe dare una confortante pacca sulla spalla a Devis, dicendogli che, ad Assisi o a Pietralcina, un pellegrino, per quanto decisamente anomalo, si confonde in mezzo alle moltitudini di pellegrini tradizionali. Ma se ti metti a immaginare l’uomo sandwich Bellucci solitario e invisibile a Matera, a Como, nella scenografia di piazza Sant’Oronzo a Lecce, a Palermo, a Torino, avverti una sottile sensazione di inquietudine. Ti immedesimi pensando al condominio dove abiti, e sono appena in tre (di cui non conosci peraltro il cognome) a salutarti; ai tanti che mentre ti illudi di aver intavolato un dialogo, guardano da un’altra parte e non ti stanno a sentire; ai silenzi delle coppie e delle famiglie mentre mangiano una napoletana in pizzeria; alle notizie di pestaggi, scippi, violenze di strada, davanti a testimoni sordi e ciechi. Il cammino di Devis è una metafora anomala dell’invisibilità sociale dentro cui ciascuno di noi vive ogni giorno senza saperlo.

Tanta fatica per niente è, a questo punto della storia, domanda ineludibile. Seguita da un grande punto interrogativo «Per fortuna le cose non sono andate proprio così. Dopo aver compiuto una prima serie di viaggi, ho deciso di aprire un sito, devisbellucci.it e una pagina su facebook, dove ho iniziato a caricare le foto e il racconto delle varie tappe. Nel giro di pochissimi giorni, la gente ha cominciato a entrare, sempre più numerosa, sempre più ‘fitta’, diciamo noi da queste parti. Tantissimi contatti via mail, tantissimi commenti del tipo: ’Ma che bella cosa! Nella foto di Napoli c’è il mio bar. Sono un giornalista, voglio fare un articolo su di te. Ti avevo notato sulla spiaggia. Ti ho visto mentre andavi in giro per le strade del mio paese. Davvero sei stato qui, come mai non ti ho incontrato?’. Soltanto tramite la realtà virtuale, le persone, comprese quelle che mi avevano visto ‘dal vero’, si sono accorte di me».

Lo schermo del computer prosegue e amplifica il ruolo dello schermo televisivo, fin dalla sua nascita presunto garante della verità e del successo? «Penso di sì. Può sembrare incredibile. Certamente è tanto vero quanto triste. Molto triste. Vorrei però sottolineare il lato positivo, e lo faccio da eterno ottimista e incorreggibile sognatore. Grazie a internet sono arrivate richieste di presentazioni e incontri nelle scuole e in altri spazi, alcuni giornali hanno scritto di me e della mia iniziativa, sono stato intervistato da radio locali. Questo è successo soprattutto nel Sud Italia. Se nelle pubbliche vie l’atteggiamento della gente era stato uguale a quello della gente del Nord o del Centro, le emittenti e la carta stampata di varie città del Sud, dopo avermi ‘scoperto’, mi hanno dedicato molto spazio. Insomma: qualche piccola soddisfazione l’ho avuta e spero di continuare ad averla».

Piccole soddisfazioni a fronte della soddisfazione più grande che un autore letterario possa avere: vendere pile e pile di copie del suo libro. Come vanno le cose sotto questo punto di vista, Devis? «Quando a pubblicarti sono gli editori indipendenti, le tirature sono per forza di soldi modeste. Lo stesso è avvenuto nel caso dei miei romanzi. Le cifre in libreria, poi, sono viziate da problemi di distribuzione, di copie rese quando si credevano vendute, e via dicendo. Se restiamo nell’ambito della mia esperienza di uomo sandwich, ogni volta che ho partecipato a un incontro, gran parte del pubblico aveva con sé il libro. Cosa rappresenti questo in termini numerici, non saprei proprio quantificarlo».

La domanda finale, caro Devis, forse può suonarti maliziosa. Tu, però, rispondi sinceramente. Quello che fai, lo fai per te stesso? Oppure hai pensato che potesse essere una provocazione utile anche alla moltitudine di scrittori, alcuni magari bravi ma condannati a restare nel buio? L’immagine trasmessa da Skype si ferma. Non è un problema tecnico. È che la faccia di Bellucci Devis si è fatta seria. «Direi che l’ho fatto per me stesso. Prima di mettermi a camminare, ogni volta che usciva un mio romanzo e lo vedevo passare sotto silenzio, ero assalito da un’ansia terribile. Mi dicevo: ‘Non c’è proprio niente da fare, devi avere alle spalle un colosso che ti sostiene e tira fuori i soldi. Altrimenti non sarai mai preso in considerazione’. Nel momento in cui mi è venuta l’idea dell’uomo sandwich, mi è sembrata una bella via di uscita dallo sconforto e un modo per recuperare entusiasmo. Mi hai chiesto di essere sincero, e lo sarò. È stata altrettanto dura scoprire che nessuno ti considerava neppure mentre giravi portandoti sulle spalle due cartelli. Eppure non era certo uno spettacolo consueto». Ci sbagliavamo, rimane ancora una domanda: perché non smetti, allora? La faccia nel riquadro di Skype torna a sorridere, l’accento delle parole torna ad essere caldo e tondo. «Te l’ho detto prima. Sono un eterno ottimista e un incorreggibile sognatore».