Rettitudine, verticalità, erezione, altezza, sovranità: è questa treccia di concetti a sopportare la «critica» cui è intitolato il nuovo volume di Adriana Cavarero (Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina, pp. 240, euro 15). In questa singolare e per nulla benevola visita ai laboratori in cui i filosofi hanno forgiato le categorie con cui pensare il soggetto moderno, l’attenzione si appunta su quell’insieme di retoriche, discorsi e dispositivi che a esso hanno fornito il suo più classico pedegree epistemologico e politico. La singolarità dell’ottica di Cavarero sta nell’aver scelto, come piano di consistenza della sua decostruzione di quella che pure è stata una laboriosa avventura speculativa, il suo speciale tenore geometrico. Sotto il suo severo scrutinio cadono allora la posizione di soggetto almeno tanto quanto la posizione del soggetto; quella geometria della verticalità che, rettificandolo, lo ha definitivamente «ordinato». Una formidabile impresa ortopedica operata perlopiù da pensatori maschi (e celibi) che, dopo averlo messo sulle sue gambe (homo erectus), e averlo così reso a sé stante, lo ha poi inscritto in uno speciale e privilegiato rapporto con la verità e il concetto.

Maschio, sovrano e violento

Gli «attributi» del soggetto vanno dunque aumentando proporzionalmente a quanto esso perde e a ciò a cui, per essere veramente tale, esso deve rinunciare: sovrano, maschio, «eretto», «naturalmente» incline alla violenza. Una silhouette che, secondo Cavarero, definisce il soggetto filosofico per eccellenza. Il canovaccio della vicenda è infatti custodito nel mito platonico della caverna: l’anabasi dell’uomo capace di uscirne e dunque di posizionarsi sulla retta verticale che unisce questo mondo al sole del Bene e al cielo delle Idee altri non è che il filosofo, vera e propria «incarnazione», dacché lo perfeziona, di homo erectus. Un soggetto, che, nelle pagine di Kant così come in quelle di Locke, si dimostra vieppiù disincarnato: da sempre e già adulto, egli – e il pronome non è a caso – rimuove ogni dipendenza da altro, ogni «cura» per altro, ogni inclinazione verso altro, e, per farlo, deve operare scelte, e dare corso a pratiche, che facciano scomparire dal campo stesso della razionalità, esorcizzandole (perlopiù malamente), quelle immagini, quelle figure e quelle condizioni che rischiano di metterlo a repentaglio. Quella che combattono i filosofi è quindi, nelle pagine di Cavarero, niente meno che una battaglia contro l’infanzia e la maternità; dunque e conseguentemente: contro la dipendenza da altri, contro la vulnerabilità e l’affidamento, contro la cura, la dedizione e il decentramento.

Contro questo asse della verticalità e dell’altezza che sembra aver informato tutta quanta la cultura dell’Occidente moderno, Cavarero schiera una figura a esso radicalmente alternativa: il soggetto inclinato. Esorbitante la verticalità, costitutivamente sbilanciato, disassato, è un soggetto fuori di sè e dunque pro-teso, e, alla lettera, chinato e inclinato (su altro, su altri). Un soggetto, e l’inclinata Madonna leonardesca che ne fornisce il blasone lo attesta chiaramente, femminile. La critica si traduce dunque nella necessità di leggere contropelo (e attraverso una dose massiccia di immaginazione quale antidoto agli eccessi di «realismo») l’intera storia della modernità col duplice obiettivo di lasciar emergere gli infiniti e potenti dispositivi con cui il linguaggio speculativo non ha mai smesso di cancellare questo altro del soggetto (a rigore: questa inclinazione che continuamente lo altera, che indefinitamente ne sabota rettitudine e «tenuta»), quanto, d’altro canto, di intercettare, e cimentarsi a definire, un diverso profilo della soggettività. Per farlo, Cavarero convoca un insieme di «scene» molteplici e diverse: dalla pittura di Artemisia Gentileschi alla scrittura di Virginia Woolf. Il soggetto inclinato offre alla filosofia la chance di una vera e propria «ripartenza»: mettendo sotto cauzione le ipotesi antropologiche che fungono da ouverture a ogni teoria politica (e Cavarero, in questo senso, non risparmia neppure un’autrice a lei carissima: quella Hannah Arendt, che, avendo pur offerto un modello dell’agire politico governato dai concetti di natalità e pluralità, finisce fatalmente per trasformare il nuovo nato in un nato già adulto o in un nato da nulla), la soggettività inclinata fa segno a un’ontologia «posturale» che resta ancora da pensare. A quella virile, belluina, egoistica del soggetto verticale e retto si oppone quella femminile, pacifica e altruistica della soggettività inclinata.

Stereotipi declinanti

Questo tentativo di radicalizzare gli stereotipi, di condurli fino alle loro estreme conseguenze, è uno degli obiettivi dichiarati di Cavarero. L’insistenza con cui la dicotomia è riproposta in tutte le sequenze della ricerca appare evidentemente studiata. E tuttavia, proprio questo uso così singolare degli stereotipi non può non sollevare più di qualche dubbio. Da un lato, la critica più banale: troppo coriacea la distinzione e, soprattutto, eccessivamente naturalizzante e moralizzante – e in fondo ripetitiva della matrice patriarcale da cui scaturisce – la scelta delle opposte fazioni (maschilità, egoismo, violenza, da un lato; femminilità, altruismo, cura, dall’altro). Va da sé: una critica del soggetto non può che essere una critica della sua presunta universalità e del linguaggio autoproclamatosi neutro e in verità patriarcale e fallogocentrico che l’ha costruito e lo riproduce. E sia. Tuttavia c’è da domandarsi se l’inclinazione altro non sia se non una forma derivata della rettitutidine; se essa cioè non riproduca quel dispositivo della sovranità che, come tiene in piedi il soggetto, così lo piega, senza intaccare quel mitologema della volontà che non troppo segretamente lo governa (una critica che, pure, Cavarero fa valere in quella «coda», ad altissimo tasso speculativo, con cui dice il suo Addio a Lévinas).

Un’opzione deflazionista

Non varrebbe dunque la pena di dotarsi di lenti in grado di leggere le grammatiche (e le geometrie) plurali dell’agency a dispetto di ogni «volontarismo» e fuori da ogni modello, che esso sia egoistico o altruistico? Il pensiero e la pratica queer, cui Cavarero dedica qualche riga, insistono su questa opzione deflazionista: occorre, per poterle davvero «vedere», disimpare quel gesto inderogabile con cui valutiamo moralmente e politicamente la nostra e le altrui condotte. Ciò che resta ancora da criticare (insieme, forse, allo stesso modo critico del pensare) è la stessa, implicita normatività dell’altruismo e della cura, l’eccesso sacrificale e l’iperbole della sovranità cui essi sembrano, in un modo o nell’altro, pur sempre rimandare.