Stephen King occupa un posto unico nel panorama editoriale contemporaneo: è il più popolare dei letterati o il più letterato dei popolari; sicuramente, è uno dei più prolifici autori commerciali. Al suo attivo, ha un’ottantina di romanzi e centinaia di racconti: dall’esordio con Carrie, ha venduto nel mondo oltre quattrocento milioni di libri, finendo per rappresentare una sorta di sfera macroeconomica a se stante. King è anche l’autore che più frequentemente è stato adattato per il cinema: i suoi racconti sono stati la fonte preferita di registi come David Cronenberg, Stanley Kubrick, John Carpenter e Brian De Palma.

A suo modo, ha definito un’epoca di letteratura «pop» e suoi derivati, specialmente attraverso i film e le serie tv, che hanno lasciato un solco nell’immaginario collettivo e lauti depositi nei conti di editori, produttori e studios di Hollywood. Dopo un grave incidente all’inizio del 2000, aveva dichiarato di voler cessare l’attività. Oggi, invece, a 66 anni è presente come non mai. Il suo ultimo romanzo, Dr Sleep, è uscito lo scorso autunno, altri due libri sono previsti entro la fine dell’anno. Nel frattempo, si è messo dietro la tastiera come sceneggiatore del primo episodio della seconda stagione di Under The Dome, la serie Cb2 (Rai2 in Italia). La fiction è tratta dal suo romanzo omonimo in cui una cittadina della provincia americana si ritrova inspiegabilmente coperta da una impenetrabile e indistruttibile cupola trasparente che la separa dal resto del mondo.

Anche King, residente nella severa magione vittoriana nel Maine, che sembra uscita da uno dei suoi libri, può apparire avulso dal mondo, protetto da un alone di mistero e dal suo stesso successo. In realtà, incontrandolo, si scopre che è un uomo spiritoso e dal carattere aperto, senza alcuna reticenza.

Perché ha voluto sceneggiare «Under The Dome»?

La realtà è che mi sono ingelosito di RR Martin. Lui, oltre ai libri, scrive anche sceneggiature come quella di Game of Thrones. Poi, c’è Robert Kirkman: non solo è autore delle graphic novel di Walking Dead, ma partecipa anche alla creazione della serie. Così mi sono detto: «Forse lo posso fare anch’io»… Mi è sembrato che l’inizio della seconda stagione potesse essere il momento giusto per contribuire: il secondo anno per una fiction può essere critico, si cerca la conferma del pubblico e spesso altre emittenti cominciano a fare una programmazione antagonista. È un’esperienza affascinante e un modo diretto per partecipare alla costruzione della trama. Nei prossimi episodi, vorrei esplorare più a fondo temi quali la sovrappopolazione, l’esaurimento del cibo e delle risorse naturali, a causa dei cambiamenti climatici all’interno della cupola. I personaggi sono alle prese con nuove crisi e ciò stimola le mie cellule creative.

Una specie di esperimento di biosfera… è un’allegoria?

L’idea per Dome l’ho avuta negli anni Settanta. All’epoca insegnavo ancora e ricordo che pensai chiaramente a come una comunità intrappolata sotto una cupola avrebbe potuto aiutarci a parlare delle dinamiche del pianeta Terra. Un perfetto microcosmo in cui riprodurre i fenomeni che oggi vediamo compiersi in modo inquietante: dalla crisi delle risorse alimentari ed energetiche all’ambiente, alle implicazioni politiche, i rapporti fra persone… Non sarebbe stato interessante mettere i personaggi in quella situazione e osservarne le reazioni? Ho capito però che non avrei potuto scrivere fin quando avessi lavorato come docente, sarebbe stato un compito difficile, richiedeva troppa ricerca. Così ho rimandato. Un giorno, mi sono trovato su un volo per l’Australia. Era interminabile e, in tutte quelle ore, ho cominciato a ripensare a Under the Dome. Avevo ormai più tempo a disposizione e internet per fare la ricerca necessaria. Finalmente, ho scritto quel libro, cercando di trattare tutti i temi, compresa la stupidità di certi politici che rifiutano di riconoscere l’entità del problema. E quando mi hanno chiesto di adattare il racconto per la tv è stato come ricevere un dono: con più tempo a disposizione, è stato possibile approfondire tutti quei temi.

In generale, come funziona il suo processo creativo?

È difficile parlarne: non posso dire di capirlo davvero neanche io stesso. Tendenzialmente, comincia con la visualizzazione dei personaggi, dove sono e cosa fanno, come suonano, a cosa lavorano. Pian piano, tutto diventa sempre più «reale» fin quando non voglio più lasciare quel mondo. Nella mia mente è come se guardassi un film di cui ho bisogno di vedere la fine. Come tutti, sono cresciuto guardando cinema e tv, mi viene naturale immaginare le cose attraverso la lente di una cinepresa.

Come nascono le sue idee? ha già in mente tutta la trama all’inizio?

Di solito, nascono all’improvviso. Lo scorso novembre, per esempio, mi trovavo in Francia. Mi stavo recando a un evento a bordo di un Suv molto alto. Al semaforo, si è accostato un pullman, il suo finestrino era a pochi centimetri dal mio e ho potuto notare un uomo che leggeva un giornale. Così ho cominciato a immaginare: e se invece di quell’uomo ci fosse stata una coppia? E se l’uomo in questione avesse in quel momento tagliato la gola alla sua compagna, lì, a mezzo metro da me… e se appena scattato il verde, fossero partiti in un’altra direzione? Ecco, questa avrebbe potuto essere l’inizio di una storia… È un po’ come attaccarsi al parafango di un camion co i pattini a rotelle, la storia ti porta dove vuole lei.

Ha una scorta di nuovi potenziali progetti?

C’è stato un periodo in cui avevo così tante idee in testa che mi sembrava dovesse scoppiare. Odiavo lavorare su un romanzo perché significava dover rimandare tutti gli altri progetti. Scrivere è come essere sposati; il progetto a cui lavori è come tua moglie, devi rimanergli fedele anche quando vedi altre belle donne che incroci per la strada. Così, mentre stai scrivendo un romanzo, può capitare che ti venga un’altra idea che ti faccia pensare: «È perfetta, la devo scrivere!…». Invece, devi restare fedele a tua «moglie», non puoi semplicemente andartene con questa nuova amante. Le nuove idee, infatti, non le scrivo nemmeno. Se non valgono, le dimenticherò presto e se invece sono davvero buone, mi rimarranno in mente fin quando avrò tempo per occuparmene.

Oggi ho 66 anni e le idee non arrivano con la stessa frequenza di una volta. Prima, mi sembrava di venire fulminato. Adesso ho due figli che scrivono romanzi. Joe ha pubblicato tre libri e Owen, oltre a un romanzo, ha scritto anche due raccolte di racconti. Sono loro ormai ad avere più idee – dev’essere meraviglioso essere giovani… Quando erano piccoli, vivevano in una casa piena di libri, dove sia io che mia moglie scrivevamo. Loro ci salivano in braccio e noi gli raccontavamo delle storie. Non mi stupisce, quindi, che anche loro abbiano seguito il mestiere e scelto l’immaginazione come una carriera. Sono tremendamente orgoglioso dei miei figli.

Cosa significa la paura? È un’ossessione o una motivazione?

Non vivo grandi paure, preferisco trasmetterle ai miei lettori. Il mio pubblico mi chiede spesso se sono stato traumatizzato da piccolo. In realtà, ho avuto un’infanzia normalissima, forse ero un bambino dall’immaginazione un po’ vivace. E poi il mio mestiere mi aiuta molto. Se sei ansioso puoi andare in psicoanalisi e parlarne per 120 dollari l’ora. Oppure puoi scrivere i tuoi timori su un foglio e la gente li compra (ride, ndr). Ma se lei ora vuole sapere da dove vengano le paure o se c’è stato un evento singolare nella mia vita, temo di doverla deludere. La verità è che provo piacere nel terrorizzare le persone.

Il suo ultimo romanzo si intitola «Dr. Sleep»: c’è qualcosa che turba i suoi sonni?

Quando sto scrivendo dormo benone, perché nel lavoro mi libero di tutti i miei incubi. Se non lo faccio, effettivamente sogno molto e alcuni sono piuttosto spiacevoli. Ho una teoria: se abitui la tua mente a immaginare, poi è difficile spegnerla… viaggerà in automatico!

Nel 2002 aveva dichiarato di volersi ritirare, invece scrive ancora ed è più prolifico che mai. Cosa è successo?

Nel 1999 ho avuto un brutto incidente, sono stato investito da un furgone. Sono stato vicino alla morte, o allo stato vegetativo. Ho sbattuto forte la testa e il dolore per molto tempo ha interferito con il processo creativo. Non riuscivo a scrivere, sono entrato in depressione. Ho cominciato a pensare che, in quelle condizioni, sarebbe stato meglio smettere. La mia idea è che una volta esaurito tutto ciò che ho da dire, preferirei uscire silenziosamente dalla stanza. Mi sembrò che quel momento fosse arrivato allora, poi il mio fisico ha compiuto il miracolo della guarigione. Ho cominciato ad avere meno dolore e ho ritrovato l’interesse per il mio mestiere, sono tornate le idee… ed eccomi qua.

Per anni, lei ha tenuto una rubrica di recensioni di film su «Entertainment weekly»: qual è il suo rapporto col cinema?

Sono sempre stato interessato alla cultura pop in tutti i suoi aspetti, film, libri, programmi tv, musica e anche le mode dei ragazzi, l’abbigliamento, la pubblicità – gli spot delle assicurazioni in particolare mi affascinano, non so perché, come quelli con il maialino (la mascotte dell’assicuratrice Geico, ndr). Il mio primo impiego è stato scrivere una rubrica di cinema per il giornale della mia università. Amo i film e mi piace scrivere di cinema e credo di saperlo fare in un modo che invece non mi riesce con la musica, che mi sembra quasi indescrivibile. In passato, ho detto che non ho mai visto un film che ho davvero odiato. Ora devo confessare che non è proprio così. L’unico film che mi ha fatto uscire dalla sala, negli ultimi vent’anni, è stato Transformers, era ridicolo.

Anche «Shining», adattato dal suo racconto, non le piacque granché…

Il mio giudizio su quel film non è cambiato nel tempo. È bellissimo da vedere, ma questo si può dire anche di una Cadillac ben mantenuta. L’ho trovato freddo. Nella storia, inoltre, il protagonista – Jack Torrance – ha una traiettoria drammatica da eroe tragico: è qualcuno che sta cercando di fare del suo meglio per la sua famiglia, ma pian piano viene trascinato fino al punto di rottura. Un uomo normale in circostanze tragiche e così sua moglie Wendy. La immaginavo come una donna carina e molto convenzionale, una ex cheerleader forse, di una bontà semplice. Kubrick invece li ha trasformati in personaggi grotteschi, sia Shelly Duvall – mi sembrava una caricatura antifemminista – che Jack Nicholson, con quella versione dei biker che interpretava nei B-movie di Corman.

Cosa pensa dell’effetto avuto da internet sull’editoria? Potrebbe esistere oggi un fenomeno come quello di Stephen King?

Un fenomeno oggi c’è: parlo di 50 sfumature di grigio. È certamente un fenomeno legato al web: non credo che sarebbe mai stato accettato da un editore tradizionale, non tanto per il sesso, ma perché non è scritto bene. Eppure è stato trovato in rete, letto su iPad e telefonini. Io stesso leggo molto su schermo, mi piace l’intimità della lettura in una stanza scura. Le edizioni elettroniche, comunque, non devono minare le vendite di libri tradizionali, vanno protetti per legge, come quelle che hanno alcuni paesi – vedi Francia e Germania – che impongono gli stessi prezzi per i due media.