I titoli della prima del manifesto colpiscono ancora. Quest’anno ce n’erano ben due nella cinquina finale del Premio Ferrari, giunto alla sua settima edizione. E uno dei due è risultato il vincitore. Si tratta, come anticipato nell’edizione di ieri, di «Sono Stato», il modo in cui il nostro giornale il 21 aprile 2013 ha raccontato, con un pizzico di sgomento, la rielezione di Napolitano al Quirinale. Lo abbiamo definito «bis presidenziale», ma non per questo. Già nel 2010 infatti, il “titolo di miglior titolo” era andato a «Indovina chi viene a cena», che con una grande foto della Casa bianca ricamava sulla storica elezione di Obama a presidente degli Stati uniti.

Stavolta la nomination se l’era guadagnata anche «Il reato di vivere», sui superstiti del naufragio di Lampedusa (ottobre 2013), scampati alla morte in mare ma non al reato di clandestinità vigente in Italia.

Dalla serata che si è svolta nel salone d’onore della Triennale di Milano è scaturita anche una discussione piuttosto appassionata sulle sorti del giornalismo italiano e della carta stampata nell’era del web e dei supporti digitali. E al manifesto viene riconosciuta la qualità di quel che c’è anche sotto al titolo, secondo una tradizione lunga ormai 43 anni. Di più, in un periodo di profonda crisi dell’editoria e di tagli generalizzati, ci attribuiscono una certa maestria nel fare quello in cui stentano realtà molto più grandi e facoltose della nostra: le famose «nozze coi fichi secchi».

I mezzi dalle nostre parti sono scarsi da sempre, ma le «penne» restano buone. Oltre che libere. E questo a quanto pare è stato apprezzato tanto quanto i titoli, dai membri della giuria. Ovvero Giulio Anselmi, Isabella Bossi Fedrigotti, Antonio Calabrò, Emilio Carelli, Aldo Cazzullo, Antonio Dipollina, Massimo Donelli, Mattia Feltri, Mario Giordano, Stefano Lorenzetto, Camilla e Matteo Lunelli – in rappresentanza della famiglia che amministra le Cantine Ferrari, realtà storica del «metodo classico» e storicamente appassionata di editoria -, Clemente Mimun, Arnaldo Pomodoro, Claudio Sabelli Fioretti, Roberto Saviano, Gian Antonio Stella, Oliviero Toscani e Guido Vigna, che ha ideato il Premio. Come si vede, è un gruppo nel quale non mancano «firme» politicamente agli antipodi rispetto al manifesto. E al quale si sono aggiunti, a partire da questa edizione, la direttrice di Rainews24 Monica Maggioni, il direttore di Raitre Andrea Vianello e l’attrice Lella Costa. Quest’ultima, ha raccontato di aver chiesto a sua figlia cosa pensasse dei cinque titoli in lizza, e lei, pungolata spesso sulla grammatica, materia in cui evidentemente a scuola zoppica un poco, davanti a «Sono Stato» non ha avuto esitazioni: «Participio passato!».

Qualche dubbio invece serpeggia in redazione su quale sia il modo migliore di mettere a frutto il premio, tradotto in 1000 (mille) bottiglie del celebre brut trentino.

A tal proposito si accettano (si pretendono) suggerimenti da parte di voi lettori, tenendo presente la mission che ci siamo dati: riacquisire il controllo della testata sotto la quale ballano i nostri titoli, al termine del doloroso percorso avviato dalla liquidazione coatta amministrativa della cooperativa «storica».

Nel corso della serata milanese, condotta da Alessio Vinci come un talk show ma senza telecamere né tempi televisivi, è stato assegnato anche il premio alla «Copertina dell’Anno». E qui la scelta è caduta su SportWeek, il magazine sportivo della Gazzetta dello Sport, e all’affondo sul razzismo che affligge le curve calcistiche, dal titolo «Buu?!».

Altro premio assegnato, al debutto quest’anno, è quello battezzato «L’Arte di Vivere Italiana», riservato ad articoli pubblicati dalla stampa straniera sulle eccellenze, «il bello, il buono e il ben fatto» del made in Italy. Lo ha fatto vincere ala rivista New Yorker un pezzo di Jane Kramer dedicato all’alta cucina italiana e in particolare allo chef Massimo Bottura, intitolato «Post Modena» (a proposito, grande titolo).