In Italia Uberpop è stata dichiarata illegale tre anni fa, come in altri paesi europei. La forza dirompente di Uber è stata in parte neutralizzata da una sentenza che ha dichiarato illegale una piattaforma che permette a chiunque di fare il tassista con la propria macchina.Con Tiziana Terranova, docente di sociologia dei processi culturali all’università Orientale di Napoli e tra le più apprezzate studiose di culture digitali a livello internazionale, indaghiamo le ragioni che hanno portato alla protesta dei tassisti contro l’emendamento Lanzillotta che liberalizza il settore delle auto a noleggio.

Protestano per il timore della concorrenza di Uber Black nelle auto a noleggio o c’è qualcosa di più profondo?

La protesta dei tassisti è motivata dal fatto che effettivamente Uber mina alle radici il loro mercato, se prende piede anche in Italia darebbe un duro colpo a questo settore così come è configurato adesso, cioè attraverso il sistema delle licenza e i tariffari, vanificando i loro investimenti e i loro guadagni. Possiamo non essere d’accordo con il modello esistente, ma non si può negare che il modello di servizio proposto da Uber ha delle conseguenze profonde che vanno al di là dei taxi in quanto tali.

Di quale modello si tratta?
Quello della gestione logistica del lavoro attraverso le piattaforme digitali, cioè servizi di cloud computing a cui si ha accesso attraverso apps o siti web. Esistono tantissime piattaforme che si propongono come mercati automatizzati che fanno incontrare chi vende e compra forza lavoro. Poi c’è l’uso nel pubblico delle piattaforme, di cui abbiamo già avuto qualche assaggio, come la scuola in Italia.

Esistono piattaforme digitali anche nell’istruzione?
Il Ministero dell’Università sta usando piattaforme a tutti i livelli, per esempio per allocare la forza lavoro insegnante nelle scuole primarie e secondarie, per valutare la ricerca nell’università e per accreditare i corsi universitari. Ormai nell’istruzione pubblica si fa tutto attraverso queste piattaforme.

Quali sono le ragioni che hanno spinto un governo ad adottare questa tecnologia di controllo e governo?
La risonanza con il governo sta nel fatto che si tratta di sistemi fortemente centralizzati, in cui i gestori della piattaforma possono implementare automaticamente i comandi e permettersi di cambiare continuamente i parametri. Si tratta, nello spirito della cibernetica, di una modalità di controllo e perfino comando nel caso delle piattaforme pubbliche, sulle persone. Se l’algoritmo dice che una donna con figli in età scolare deve trasferirsi all’altro capo d’Italia o perdere il posto, allora è letteralmente comandata a muoversi. L’effetto sulla percezione è che non ci sia un vero capo in carne e ossa, ma un sistema di parametri e regole oggettivo contro cui non ci si riesce ad appellare. Mi ricorda un bel film di Lars Von Trier di qualche anno fa, Il grande capo, dove il ‘vero capo’ paradossalmente per funzionare meglio deve essere invisibile e nascosto. Il capo è apparentemente sostituito da un algoritmo o un automa che decide sui conflitti, che stabilisce i criteri di valutazione, e che determina organizzazione dei tempi di vita e di lavoro. Tuttavia, questo è un vero e proprio esercizio di sparizione apparente, perché in realtà esistono dei luoghi e dei soggetti che decidono le regole e i parametri del sistema e possono intervenire direttamente.

Cosa succede quando il capo è un algoritmo?
La sensazione è da un lato che il capo non sia umano, dall’altro che il ‘capo’ si sia disperso nel corpo dei committenti della piattaforma che valutano la performance. Nella new media theory, si parla spesso di come la figura dell’utente esprima una fantasia di essere ‘padrone’ dell’interfaccia. Altre ricerche storiche, penso a The Prehistory of the Cloud di Tung-Hui Hu, hanno sottolineato invece come il modello dell’utente nasce nel contesto del time-sharing, cioè uso condiviso dei supercomputer negli anni 60, e lo costituisce come soggetto produttivo. Chi usa le piattaforme da un lato ha la sensazione di poterle controllare, dall’altro si sente controllato. C’è un desiderio di autonomia che si scontra con un nuovo tipo di comando.

Allora le piattaforme ci comandano?
Certo, nessuno ci obbliga ad usare Airbnb o Uber per guadagnare tranne il bisogno economico. Quindi c’è un livello di controllo che viene effettivamente dato all’utente ma nel contesto di un controllo più generale che può determinare prezzi, salario, visibilità e perfino l’inclusione o esclusione dalla piattaforma. Questo modello viene dagli ambienti della finanza che chiedono alle tecnologie elaborate dalle aziende della Silicon valley di ‘disturbare’ esistenti settori economici per creare nuove opportunità di profitto, e tra questi ovviamente c’è l’automatizzare il mercato del lavoro e, in generale di tutti i mercati in cui si muovono beni e servizi. Si è creato un sistema che cerca di disintermediare le relazioni e gestire grandi masse di lavoro con minimi investimenti.

In questa cornice qual è il ruolo dell’algoritmo?
Nel caso di Uber, come del resto in Airbnb e nelle altre applicazioni più diffuse, l’algoritmo raccoglie e calcola il punteggio aggregato della valutazione del singolo operatore e il suo posto nella graduatori (ranking) – cioè chi apparirà per primo quando il cliente prenota un’auto per esempio. Determina quanto si è visibili nella piattaforma, rende pubblica la valutazione di committenti e clienti, e suggerisce i prezzi. Concretamente, l’algoritmo gestisce le tariffe e fa in modo che siano più basse di quelle dei taxi e dei servizi tradizionali. In questo modo stabilisce il prezzo migliore che permette di entrare sul mercato.

Dal punto di vista della gestione della forza lavoro, come si comporta la piattaforma digitale?
Queste piattaforme sono assolutamente centralizzate, possono decidere a discrezione dei loro proprietari la «disconnessione» di qualcuno dal sistema. Ovviamente non è nel loro interesse praticare atti casuali e di massa di disconnessione, ma sicuramente questa cosa è successa ogni volta che gli utenti-venditori di forza lavoro hanno provato a protestare o organizzarsi. I primi a essere eliminati sono gli scioperanti o chi chiede un diritto. È tutto molto arbitrario e automatico. Il limite è dato solo dal fatto che le piattaforme sono esse stesse sul mercato, in competizione con nuovi, esistenti o futuri, servizi, e che il loro successo è legato anche alla quantità di forza lavoro che riescono ad attrarre.

L’algoritmo decide anche i compensi?
Stabilisce la tariffa competitiva rispetto al traffico e al mercato. La gara è tra chi fornisce il servizio più conveniente. L’autista di Uber è anch’esso un cliente della piattaforma. È lui che versa alla piattaforma una percentuale del servizio che ha reso al cliente. È come se il passeggero e l’autista fossero clienti della stessa piattaforma.

Anche Facebook è una piattaforma…
Ci sono tantissime piattaforme di vari tipi. Di nuovo i critici dei nuovi media, penso per esempio a Jodi Dean, hanno sottolineato come queste piattaforme mobilitino i ‘circuiti del piacere’. Pensiamo alla piccola scarica adrenalica che sentiamo quando udiamo il rumore che ci annuncia un nuovo messaggio su Whatsapp, una prenotazione su Airbnb, un mi piace su Facebook. Il piacere ha a che fare con i livelli di eccitazione del corpo e sostiene l’attenzione, che è la merce scarsa per eccellenza del mercato dei servizi digitali. Quello che mi colpisce è come questo discorso delle ‘piattaforme del piacere’ valga sicuramente per le piattaforme di ‘intrattenimento’, valga fino ad un certo punto per app come Uber o Airbnb che comunque hanno bisogno di attrarre e trattenere la forza lavoro, e non valga affatto per le piattaforme pubbliche per così dire, che sembrano animate da uno spirito punitivo. In generale, mi sembra si possa dire che le piattaforme mettano in atto una specie di pedagogia morale utilitarista del dolore e del piacere (punizioni e incentivi). Oltre a gestire la forza lavoro o la socialità generale, mi pare che cerchino anche in qualche modo di ‘formarla’ e ‘domarla’, di renderla prevedibile e conforme al modello dell’homo oeconomicus o il soggetto di interesse. Quindi se vogliamo agire contro questo modello dobbiamo davvero comprenderne bene tutte le implicazioni, anche a livello soggettivo, se no rischiamo di replicarle anche nella possibile costruzione di alternative (penso al modello del cooperativismo di piattaforma sostenuto da Trebor Scholz).