La strage operaia di Casteldaccia torna a portare sotto i riflettori l’intrinseca pericolosità delle lavorazioni negli “ambienti confinati”: luoghi totalmente o parzialmente chiusi, che non sono stati progettati e costruiti per essere occupati da persone, ma dove si possono eseguire interventi specifici come la pulizia, l’ispezione, la manutenzione o la riparazione.

In questi ambienti il pericolo è molto elevato a causa della presenza di esalazioni di gas venefici. Sull’argomento i dati elaborati dagli esperti dall’Inail e dai tecnici dell’Anmil disegnano un affresco terribile: nel solo periodo che va dal 2005 al 2018 si sono verificati 37 incidenti mortali in ambienti confinati, che hanno causato la morte di 62 lavoratori: ogni episodio ha portato in media alla morte di 1,7 persone. Si tratta per lo più di incidenti che avvengono all’interno di cisterne o serbatoi (53,2% dei decessi), vasche di raccolta (22,6%) o silos (10%), ambienti nei quali si sprigionano spesso esalazioni di gas asfissianti: ben due terzi delle morti (66,7%) avviene proprio per questo motivo, mentre quasi il 20% è causato da cadute traumatiche.

“Alla luce di queste statistiche – tirano le somme Inail e Anmil – si può affermare che nel nostro Paese ogni anno si verificano mediamente circa tre incidenti in ambienti confinati, che causano la morte di cinque lavoratori”. E se nel palermitano la causa della strage è stato l’idrogeno solforato, l’anno scorso in due diversi incidenti in aziende vitivinicole durante le operazioni di pulizia di cisterne di vino sono morti tre lavoratori: a San Polo di Piave un enologo bassanese, Marco Bettollini, mentre cercava di aiutare un operaio che per fortuna si è salvato, e a Gioia del Colle nel barese Giovanni e Filippo Colapinto, padre e figlio di 81 e 47 anni, anche loro uccisi dalle esalazioni di monossido di carbonio.

Stesso tragico destino per un altro operaio, l’albanese Dritan Mecaj, morto nel dicembre 2022 a Cessalto nel trevigiano sempre all’interno di un azienda vitivinicola. Mentre nel 2021 a Paola nel cosentino i morti furono addirittura quattro, tutti imparentati fra loro, asfissiati dalle esalazioni di una vasca che conteneva mosto d’uva in fermentazione in un locale non sufficientemente arieggiato.

Ancora quattro morti nel 2019 ad Arena Po nel pavese, due allevatori di bovini e due loro dipendenti annegati in una vasca di liquami. E sempre quattro morti nel 2018 a Milano alla Lamina, fabbrica che produce nastri di acciaio e di titanio: in questo caso ad uccidere Arrigo e Giancarlo Barbieri, Marco Santamaria e Giuseppe Setzu fu l’argon, un gas inerte che aveva saturato un forno in cui vengono lavorate le lastre di metallo e che era in manutenzione.

Non di rado è “la catena di solidarietà” ad essere fatale, sia a chi si sente male per primo sia ai compagni di lavoro che cercano di aiutarlo. Così sono morti tre operai nel 2016 a Messina mentre erano impegnati in operazioni di pulizia e di saldatura nella sentina di un traghetto, con altri tre operai salvati per miracolo. Mentre la più grande tragedia in quest’ambito accadde nel 1987 a Ravenna, con ben 13 operai che morirono asfissiati su una nave gasiera della Mecnavi, mentre stavano effettuando lavori di saldatura nel corpo del gigantesco scafo.

Sul fronte normativo, negli anni recenti con il Dpr 177/2011 si è cercato di regolare in un quadro generale le attività negli ambienti confinati. Ma secondo alcuni addetti ai lavori è già necessaria una profonda rivisitazione della legge, visto il coacervo di norme preesistenti che di fatto ne rendono problematica l’applicazione.