Il Museo d’arte moderna della prefettura di Shiga, nei pressi di Kyoto, custodisce alcune tavole di una bellezza discreta e turbante: sono gli originali delle illustrazioni di La madre del Comandante Shigemoto (traduzione dal giapponese di Andrea Maurizi, Einaudi «Letture», pp. XVIII-166, euro 18,00), un romanzo di Tanizaki Jun’ichiro pubblicato a puntate sul quotidiano Mainichi tra il novembre del 1949 e il marzo del 1950. L’autrice delle tavole è Ogura Yuki, esponente della scuola giapponese (nihonga) e allieva del grande Yasuda Yukihiko, che a sua volta era un buon amico di Tanizaki. Il tratto di Ogura è delicato, disegna figure flessuose e imperscrutabili che si stagliano nette su sfondi candidi o si nascondono dietro gli infiniti veli grigi della sera. Artista rispettosa delle regole compositive del nihonga, cui seppe tuttavia conferire un gusto moderno nella scelta dei soggetti, per La madre del Comandante Shigemoto Ogura si ispirò ai rotoli illustrati di opere del periodo Heian (794-1185), lo stesso in cui il romanzo è ambientato.
Il gioco delle dissolvenze asseconda docilmente il disvelarsi di una trama sofisticata e piena di azzardi, sempre sospesa tra passato e presente, realtà e immaginazione, storiografia e racconto. Una delle componenti cruciali della poetica di Tanizaki è infatti la rielaborazione immaginifica – e talvolta visionaria – della tradizione culturale giapponese. Qui, come in Yoshino (1931) e in Vita segreta del signore di Bushu (1932), due esempi scelti tra i libri disponibili in italiano, l’autore conferisce al proprio interesse per i testi antichi una forma ibrida, a metà tra finzione narrativa e falso filologico, e esprime già nell’incipit la sua ambiguità: «Questo racconto trae origine dalle vicende del celebre esperto delle vie dell’amore, Heiju». Il narratore si propone come depositario di una storia, di un «racconto», e invita il lettore a seguirlo nel familiare gioco della fiction; il riferimento a Heiju, tuttavia, introduce sin da subito un elemento problematico, poiché rimanda a una figura ricorrente nelle cronache del periodo Heian, il funzionario di corte noto per le sue innumerevoli avventure sentimentali. Alcune citazioni intervengono però subito a alimentare l’impressione di trovarsi di fronte a una lettura tutt’altro che convenzionale e rassicurante: il personaggio di Heiju viene prima presentato attraverso un passo della Storia di Genji (ca. 1000) e poi descritto a partire da vari altri testi che parlano di lui. Svestiti i panni del romanziere, il narratore sembra ormai perfettamente a proprio agio in quelli del filologo. Si muove con disinvoltura tra poesia e prosa Heian, rinvia all’aneddotica classica e ai testi del canone buddhista: coltiva, insomma, quella che nella prefazione all’edizione italiana Giorgio Amitrano definisce «una foresta di citazioni» fitta, labirintica e in apparenza interminabile.
Tanizaki nutriva verso la cultura tradizionale del Giappone un interesse profondo e erudito, e lo dimostrano tra l’altro le sue versioni in lingua moderna proprio della Storia di Genji, a cui lavorò inizialmente sul finire degli anni trenta, poi subito dopo la pubblicazione della Madre del Comandante Shigemoto e infine nel 1965, poco prima di morire. Questa opera, così coerente al suo discorso narrativo da andare ormai anche sotto il nome di Tanizaki Genji, è un saggio mirabile dell’originalità intrinseca al rapporto dello scrittore con i materiali classici. Tanizaki ha attribuito al «suo» Genji, anche graficamente, l’aspetto di una traduzione annotata, improntata al massimo rigore filologico; ma è solo una impressione: le glosse sono quasi sempre incomplete, vaghe, e, lungi dal rispondere alle finalità di un vero apparato critico, si limitano tutt’al più a suggerire al lettore una indicazione di rotta. È evidente, dunque, che Tanizaki ci coinvolge in un gioco, ci sfida a seguirlo nel labirinto e mette alla prova la nostra sensibilità. Nella Madre del Comandante Shigemoto, il «racconto» è la somma di un corpus di fonti verificabili (tutte tranne una) sapientemente concertate sotto la guida di una immaginazione inesauribile e di una padronanza perfetta della costruzione narrativa. Se tanti scrittori, critici e studiosi – Masamune Hakucho, tra gli altri – hanno ritenuto questo romanzo un’opera maestra di Tanizaki, se ne hanno sottolineato la densità in termini di rimandi alle diverse costellazioni che compongono il suo universo letterario, è perché contiene tutti i temi a lui più cari e li presenta come un organismo conchiuso e armonico. La complicata rete di citazioni, che in un primo momento pare voler intimidire e respingere il lettore, si rivela ben presto l’intelaiatura stessa della vicenda di Shigemoto, e la dissemina di sfumature sempre nuove attraverso il meccanismo più prezioso che un’opera letteraria possa innescare: quello delle associazioni, delle corrispondenze, il richiamo empatico che mette in comunicazione chi legge con ciò che è raccontato.
Quando la potenza immaginativa irrompe e dissipa il sospetto di trovarsi di fronte a un esercizio di rigore filologico, il lettore ritrova (o scopre, se li sta incontrando per la prima volta) motivi e stili tipici di Tanizaki. L’attrazione morbosa di Heiju per una donna che si mostra indifferente, la bellezza fragile di una giovane che incarna allo stesso tempo la sensualità femminile e una certa sacralità della figura materna, la dialettica giovane/vecchio, le diverse gradazioni del piacere sadico e masochistico, e naturalmente la nostalgia della madre: è quest’ultimo elemento a costituire, ci ricorda la quarta di copertina, «la tonalità prevalente del romanzo». L’anziano padre di Shigemoto, Kunitsune, acconsente a cedere la moglie appena ventenne a suo nipote Shihei, molto più giovane di lui ma di gran lunga più potente a corte. La narrazione del suo dolore in seguito al «rapimento» e per i tre anni che gli rimangono da vivere è interrotta da digressioni nelle gesta di Heiju, descritto come «pigro, spigliato, spensierato e affabile», spesso incauto e maldestro durante le sue avventure, e questo spostamento del fuoco della storia produce un effetto di contrappunto che avvolge la figura di Kunitsune in una malinconia ancora più struggente.
Anthony H. Chambers, traduttore del romanzo in lingua inglese, ha suggerito come il cromatismo freddo che caratterizza le scene dei rari incontri tra Shigemoto e suo padre serva a evocare un presagio di morte, e anche la scelta della stagione, cioè l’autunno, contribuisce a creare questa atmosfera. L’autore controlla la materia narrativa sistematicamente: ogni elemento del paesaggio nasconde una associazione, fa capo a una sensibilità sedimentata nel corso dei secoli, trasmessa sotto forma di allusione, di figura retorica, di rimando intertestuale. È il caso del monte Hiei, e così pure del fiume Kamo. Nella consuetudine della citazione, Tanizaki corrobora l’inventio sino a rivelare un intreccio stratificato e ricco di suggestioni e di ricordi.
Come i personaggi nelle tavole di Ogura, la sua poetica è un gioco di ombre, di contorni netti che improvvisamente si confondono; la cifra della sua scrittura è una tensione verso la libertà espressiva sostenuta da un senso innato della composizione. Scrittore colto e raffinato, lucido interprete delle arti e della società del suo tempo e profondo conoscitore dell’antichità giapponese, Tanizaki riversa nella Madre del Comandante Shigemoto una ulteriore conferma di quanto sia imprescindibile la sua figura nella letteratura del Novecento.