La vocazione di narratrice per immagini di Elisabetta Sgarbi esplode in Racconti d’amore, secondo lungometraggio di un’attivissima documentarista che ha sempre voluto raccontare. Qui affida più che mai la drammaturgia alla parola. Al testo poetico scandito dalla voce fuori campo che precede, segue, si alterna alle immagini, nella ricerca di una struttura unitaria in cui storie, paesaggi, corpi, si fondono armonicamente per cogliere il mistero degli eventi nel loro svolgersi. Anche nei giorni terribili dell’occupazione nazista la vita trionfa. L’amore vince ogni ostacolo, come l’acqua del grande Po, supera gli sbarramenti per continuare a scorrere maestosa verso il mare. E con l’amore la lotta al nemico per la propria sopravvivenza diventa quasi un gioco, pericoloso ma coinvolgente. Nell’affrontare un tema difficile come la Resistenza si sottrae alla tentazione del cinema epico per scegliere la strada del vissuto dei protagonisti coinvolti giorno per giorno in una Resistenza esistenziale fatta di sorrisi, sguardi, reticenze, atti mancati, amori, tradimenti, ambientata in un luogo dell’anima come il Delta del Po che per lei è il centro del mondo.

Se attinge direttamente alla letteratura commissionando i testi a Sergio Claudio Perroni, Fausta Garavini, Tony Laudadio, senza contare Giorgio Bassani, non è per confonderla con le immagini, ma per farla vivere accanto, una specie di colonna verbale che scorre parallela, resa ancora più intensa dalle scelte musicali di Franco Battiato. Il film racconta quattro storie, un percorso quasi circolare dal presente al passato e poi ancora al presente, nella convinzione che non esiste un presente che non sia ossessionato dal passato e che non conviva con un futuro. Originale declinazione della permanente attualità della Resistenza. In Tra due cieli la figlia (Laura Morante) rievoca i suoi genitori (Michela Cescon e Andrea Renzi) nei luoghi in cui è avvenuto il loro incontro. Se è lei che ci introduce al passato, sono i due giovani innamorati che con le loro voci ricordano a se stessi gli avvenimenti di quei giorni di guerra. Come per i fantasmi di Spoon River, tutta la loro vita è racchiusa in quel breve periodo assunto a significato totale di un’intera esistenza. La loro storia d’amore si intreccia con le azioni partigiane, in cui le donne nascondono i volantini sotto le vesti. Ma un giorno Bruna (Ivana Pantaleo) li denuncia e vanno a cercarli di casa in casa.

La voce fuori campo della figlia riprende le parole dell’inizio: «La vita in quel mondo scorreva lo stesso come il fiume incurante di ciò che l’intralcia. Scorreva impetuosa». La fornace rievoca la missione di due ragazze portaordini(Sabrina Colle e Anna Oliviero) impegnate nel collegamento tra i partigiani alla macchia e le loro famiglie. Della guerra si sentono solo gli spari delle mitragliatrici. Sono incaricate di trasportare un giovane fuggiasco (Tony Laudadio) fino a Comacchio. Vanno e vengono tra la terra e il fiume, tra la barca e la fornace nel paesaggio sorvolato dalle folaghe, i gabbiani, le allodole, le anitre selvatiche. Percorrono, percorriamo il fiume quasi a fior d’acqua. Portata a termine la missione, non sapranno più nulla di lui. Nel terzo episodio Micòl (Elena Radonicich) ci viene incontro in bicicletta per il viottolo fiancheggiato da siepi di bosso, i capelli biondi, il sorriso infantile.

«Per via di quei capelli biondi, di quel biondo particolare che non apparteneva che a lei, riconobbi subito Micòl Finzi Contini», rievoca la voce recitante di Toni Servillo con le parole di Bassani. Micòl si aggira nel cimitero ebraico avvolto dalla nebbia, si ferma alla lapide di famiglia in cui mancano i nomi di tutti quelli che non si sa dove siano sepolti. Come un fantasma percorre le vecchie stanze con un candeliere in mano, si guarda nello specchio per assicurarsi della sua reale presenza prima di scomparire in un campo di concentramento. Mentre se ne va nella Balilla, guarda dal finestrino le strade di Ferrara, le case rosse, le torri del Castello in un primissimo piano dei suoi occhi chiari. Il giovane innamorato ripensa all’estate di San Martino del 1938 quando in un soprassalto di timidezza non ha saputo confessarle il suo amore.

Si ritorna all’oggi con L’illusione quando gli ideali di ieri si ripiegano sul privato. Il fiume aperto, quasi mare, i canali, il faro, le canne verdi, le nuvole dorate, sembrano tutte promesse di felicità. L’acqua dall’azzurro-blu attorno alla barca trascolora al rosso dove il fiume riflette il sole al tramonto. L’illusione è quella di Lucio (Tony Laudadio) che incontrandola tutti i giorni all’osteria galleggiante si innamora di Ada (Anna Oliviero) e scambia l’imbarazzo della donna per complicità. Solo alla fine si accorge che non è successo nulla, mentre il fiume lo guarda impassibile.

Nella straordinaria capacità di esplorare i luoghi, il film allarga gli spazi fino a renderli senza confini come a voler spingersi fino alla soglia del mondo, l’orizzonte che si sporge sull’infinito, per poi riavvicinarsi rapidamente all’uomo sperso in questa immensità. Nella amorosa attenzione per il paesaggio naturale inseguito nelle anse del grande fiume, nella inscindibilità delle storie dall’ambiente dove si svolgono, Racconti d’amore rivela una strategia espressiva sofisticata e avvolgente di intensa empatia, in cui si avverte l’eco lontana ma vitale di una audace esperienza documentaristica.