Finalmente una mostra intelligente, e di successo! e bisogna dirlo, una buona volta, ripeterlo, spargere la voce, al vicino di casa, nelle piazze, ai sindaci, nei cda delle fondazioni: quando si fa ‘cultura alta’, il pubblico risponde! (pubblico e elettorato, in fondo, non coincidono… ma, passata l’euforia, ci ricomponiamo). Tre sembrano essere le mostre più visitate di questo inizio 2013: Tiziano alle Scuderie, Modigliani a Palazzo Reale e questa di Pietro Bembo, promossa dalla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, allestita nel Palazzo del Monte di Pietà, a due passi dal Duomo di Padova (fino al 19 maggio, a cura di Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura, catalogo Marsilio, pp. 439).

Dalla prima del podio, se entri con un’idea anche vaga di chi è Tiziano, esci senza alcuna consapevolezza in più – e speriamo che la saga veneziana-quirinalesca, partita con Antonello nel 2006, finisca davvero con questo settennato qui. Della mostra milanese daremo conto prossimamente; si merita comunque la nostra incondizionata preferenza questa rassegna su un letterato centrale per capire sorti di libri e quadri italiani di primo Cinquecento.
Pietro nasce a Venezia nel 1470 e cresce in una casa patrizia, dove appeso alle pareti stava un dittico di Memling, venuto da Washington e squadernato in mostra appena entri.

La volontà di veder chiaro nelle cose, respirabile nei dipinti fiamminghi, dovette forgiare, oltre che la mente di tanti pittori del tempo, anche la sua. Da giovane si butta a emendare la Phaedra di Terenzio, insieme al Poliziano, con il quale a Venezia confronta codici, poi va a Messina da Costantino Lascaris per imparare il greco. Migliori maestri, in filologia e lingua greca, era difficile trovare. Quando torna a Venezia, un incontro gli cambia la vita: con Aldo Manuzio, l’editore più all’avanguardia che c’era in giro. I due allestiscono una collana di ‘classici moderni tascabili’ e sanciscono che la letteratura italiana va fatta partire tre secoli prima (con Dante e Petrarca). Quando si tratta di dare alle stampe la prima edizione del libro che gli darà fama nazionale, Gli Asolani, naturalmente Bembo manda le bozze al torchio di Manuzio (1505).

Il modo di ragionare di amore di questi dialoghi corre in parallelo, dice la mostra, con i ritratti di Giorgione, e per chi ama la pittura la seconda sala è indubbiamente un giardino di delizie. I due dipinti di Giovanni Bellini recentemente riscoperti da Antonio Mazzotta (la Madonna Dudley e il Ritratto di Giovanni della Casa, entrambi di collezione privata), fronteggiano, a lasciarti sbalordire come sempre, tre pezzi giorgioneschi: il Doppio ritratto di Palazzo Venezia, il Ritratto di Budapest e un ultimo da San Francisco (sola presenza insensata: un Busto bronzeo proveniente dalla tomba di Petrarca a Arquà). La candida perfezione belliniana, di civiltà geometrica esportabile in campagna, si scioglie nella doppia sensazione, di malinconia e voglia di scherzare, di spleen vissuto in arcadia, che ti trasmette il Giorgione romano (1502), o l’ermetico snobismo del suo uomo di Budapest (1503), o la rude tensione del lettore di aldine finito in East Coast (1500). Tanto è concentrato il botta-e-risposta di questa seconda sala, che il resto della mostra è, emozionalmente, forzata decrescita.

Entri nella terza sala, trovi la ciocca di capelli di Lucrezia Borgia (ritrovata fra le carte di Bembo e poi inserita nella teca ambrosiana di Alfredo Ravasco, nel 1928), capisci che il clima è cambiato: il Rinascimento è pur sempre quel pezzo di storia su cui è agevole stendere una patina di decadentismo. Sarebbe meglio non mischiare mai fortuna critica e histoire événementielle. Si procede lampeggiando sulla cultura di corte: l’incontro con Ariosto a Ferrara, alcune apparizioni di Isabella d’Este, una parete di fondo su Urbino, dove il Bembo fu dal 1506 al 1512. La sala si costella di prime edizioni dell’Orlando Furioso, delle Rime bembesche, del Cortegiano di Baldassarre Castiglione. La varietà dei gusti pittorici di questi ambienti è tale che un Perugino assai leonardesco (la Maria Maddalena di Palazzo Pitti) può convivere senza scandalo con il dipingere a bolle di sapone di Lorenzo Costa o le eroine melodrammatiche che sforna la pittura bolognese del tempo. Si va verso un’uniformità, ma il processo non va confuso con l’opera di normalizzazione ordita a tavolino, nella Roma medicea di Leone X.

Quando Bembo accorre nella capitale (1513), una societas di amanti delle antichità venne a crearsi, fra lui, l’autore e i due soggetti di un altro Doppio ritratto, quello Doria Pamphilj: parliamo di Raffaello, Andrea Navagero e Agostino Beazzano – e ricordiamo di averlo visto di recente, nella poco raccomandabile mostra sul tardo ‘divin pittore’ chiusa a gennaio al Louvre. Per questo circolo di veneti a Roma, Raffaello non poteva che ricorrere al suo bagaglio di pittura tonale, dove il verde del fondo accende il nero degli abiti, i chiari dei volti, gli svolazzi delle maniche. Una penombra alla Sebastiano del Piombo, incontrato sui ponteggi di Villa Chigi, non ancora assuefatta al Michelangelo della volta. Siamo al momento fondante della ‘maniera moderna’, dove Leonardo, Raffaello e Michelangelo assurgono, come le ‘tre corone’ letterarie (Dante, Petrarca e Boccaccio), a glorie nazionali che codificano un linguaggio.

La partecipazione di Bembo al confezionamento di un modus operandi nazionale avviene con le Prose della volgar lingua nel 1525. (E ricordiamolo sempre, non fa mai male: sono gli anni in cui il più grande intellettuale del tempo, Niccolò Machiavelli, da quegli stessi Medici che incensano il Bembo, viene torturato e lasciato marcire in esilio. Un altro che di Italia ragionava spesso e volentieri.) Che con l’umanesimo si potesse fare l’Italia era il sogno di un’epoca, e chissà quanta disillusione, anche per Bembo, alla morte di Raffaello (1520) e nei giorni del Sacco (1527)! lui torna a Padova già dal ’21, e si consola comprando casa vicino agli Eremitani. Qui ‘gli ozii delle lettere’ combaciano con una pratica collezionistica anch’essa altamente ciceroniana. E il riscatto emozionale della mostra è questa sala dove gli Antinoo o i Caracalla guardano il San Sebastiano del Mantegna, dove antichi e moderni non sono contrapposti in querelle. Fuori dalla cappellina della Ca’ d’oro, l’omone mantegnesco perde il suo ruolo di feticcio; fra pezzi di statuaria antica, ti illudi davvero sia stato pensato per esser di marmo e non di carne. Il gusto di Bembo sembra aver seguito un filo tutto veneziano: Bellini da giovane, Giulio Campagnola e il suo classicismo campestre da adulto, Tiziano quando i capelli si tingono di bianco. Se osserviamo il suo volto nei primi ritratti certi – il dipintino di Cranach il Giovane, la medaglia di Valerio Belli –, l’uomo-Bembo ci appare protervo, tenacemente ancorato a ideali immutabili.

Tutto cambia, naturalmente, quando a ritrarlo è Tiziano. Ora Bembo è diventato porporato, siamo di nuovo a Roma, ma la città si è fatta grigia e bigotta, ai tempi di Paolo III Farnese. Quell’irraggiungibile predatore di psicologie che è il cadorino, non può che ribadire, nella tela del ’39 venuta da Washington, quanta intelligenza possa celarsi negli occhi di un potente, come accade nel papa andreottiano di Capodimonte o nel nipote con un’infanzia negata, Alessandro Farnese – due dipinti portati alle Scuderie. Il Bembo cardinale, passeggiando per i corridoi vaticani o per una loggia di Castel Sant’Angelo, dovette orecchiare quella crisi spirituale che tormentava una nuova generazione, che leggeva Juan de Valdès o le Rime di Vittoria Colonna: quel mondo di immagini e suoni che fermenta nel Giudizio sistino.

Di Michelangelo, a cospetto del Cristo portacroce di Sebastiano del Piombo (1535-40), è in mostra la celebre Crocifissione a carboncino del British (1540 circa); ma i nessi con il nostro letterato son già allentati. Lo vediamo per l’ultima volta nel Busto funerario di Danese Cattaneo, eseguito dopo la morte, che giunge nel ’47. Questo marmo scolpito da uno scultore amico, estrapolato dal monumento nella Basilica del Santo, è incapsulato in una sala poco coesa: era meglio non inquinare il discorso Jacopo Sansovino-Bartolomeo Ammannati-Cattaneo – la linea più filotoscana della scultura veneta – con la presenza di Giulio Clovio o dell’Idolino ritrovato a Mantova, di cui Bembo scrive l’epigrafe. Il Bembo di Cattaneo, dall’aldilà, ci appare come un patriarca certo di aver fatto quello che c’era da fare, per sé e per gli altri: ai posteri seguire i suggerimenti.