Lo scenario sembra quello già visto nel 2003 ma in piazza contro i pericoli di guerra non c’è la «seconda potenza mondiale» (come furono definiti i pacifisti dal New York Times). A spegnere l’ardore dei «volonterosi» sono invece i parlamenti. O almeno lo è stato quello britannico che ha bocciato la proposta di Cameron. Temendo un simile risultato, il francese Hollande ha deciso di non aspettare il voto per far valere la sua «grandeur». Obama, che dovrebbe essere il leader della coalizione, tentenna, forse è il più consapevole dei rischi che corre, ma per questo viene accusato di essere un codardo dai suoi amici. Lui che aveva votato contro la guerra in Iraq potrebbe fare la fine di Bush, dopo aver ricevuto il Nobel per la pace. Mentre la ministra degli esteri italiana Bonino mette in guardia dal rischio di «una deflagrazione mondiale».

Gli ispettori Onu stanno finendo il loro “inutile” lavoro in Siria: l’impressione è che il risultato non inciderà sulle decisioni dell’intervento militare, proprio come era successo in Iraq. Il disastroso esito di quell’intervento e di altri – dalla Somalia all’Afghanistan – non induce a valutare i pericoli di una nuova guerra, in Siria, dagli esiti prevedibilmente molto più gravi e incalcolabili.

Il motivo scatenante è l’uso di armi chimiche vietato dalle convenzioni internazionali. Armi chimiche usate da chi? Riusciranno gli ispettori a stabilirlo? Poco importa, la colpa è di Assad. Intendiamoci: Assad ha moltissime colpe, come le hanno alcuni dei gruppi che si oppongono al suo regime (e che potrebbero persino disporre di armi chimiche). Da quando è iniziata la guerra civile il numero dei morti è incalcolabile, sicuramente decine di migliaia (la stragrande maggioranza civili), eppure si cercava ancora il pretesto per intervenire: l’uso esecrabile di armi chimiche. Le stesse per cui si è intervenuti in Iraq anche se Saddam le armi chimiche non le aveva più e a usarle contro la popolazione civile sono stati invece gli americani.

Ma la situazione che si presenta in Siria è molto diversa. Per l’intervento in Iraq vi era un piano, anche se sgangherato: occupazione del paese, eliminazione di Saddam e al suo posto un governo «amico». Un piano fallito perché non teneva conto della realtà di quel paese, che si trova ancora in una situazione di precarietà e di guerra civile e religiosa. Ma l’eliminazione di Saddam e la riduzione della potenza irachena faceva comodo ai paesi vicini, innanzitutto all’Iran, che invece nel caso di un attacco alla Siria minaccia di intervenire. Non solo l’Iran, ma anche il governo sciita di Baghdad e gli Hezbollah libanesi sostengono Assad. Senza parlare della contiguità al teatro di guerra della mina israeliana.
Quali saranno allora le conseguenze di un attacco alla Siria? Gli esperti parlano di un attacco limitato. Ma non esiste un limite quando si scatena una guerra: la guerra è guerra, è morte, è distruzione e soprattutto si sa come comincia ma è molto difficile sapere come e quando finirà.

L’attacco potrebbe incendiare tutto il Medioriente con conseguenze globali perché, come si è dimostrato con l’Afghanistan, la guerra non ferma il terrorismo ma lo alimenta, soprattutto quando si vanno ad aiutare i jihadisti che stanno combattendo in Siria la loro «guerra santa» contro Assad. Molti jihadisti sono arrivati in Siria dopo aver combattuto in Libia contro Gheddafi (con l’appoggio dell’occidente). E la Libia non ha trovato stabilità ed è diventata il punto di smistamento di armi e jihadisti verso tutto il nord Africa.
C’è qualcuno tanto pazzo che vuole fare il bis? L’unica strada possibile per evitare la catastrofe è riprendere un faticoso percorso diplomatico.