Era la metà degli anni ‘90 quando, con il collega Maurizio Matteuzzi, in quei giorni a Gerusalemme, prendemmo parte a tour in Cisgiordania davvero speciale e inquietante. A guidarlo c’era Ariel Sharon, il falco della destra israeliana che una dozzina di anni prima in Libano era stato accusato di aver «lasciato fare» alle milizie falangiste cristiane che avevano massacrato circa tremila profughi palestinesi nei campi di Sabra e Shatila a Beirut. A metà degli anni ‘90 Sharon era dipinto dai suoi stessi connazionali come un “falco” schierato contro la “pace di Oslo”, un “estremista” nemico dei diritti dei palestinesi, un accanito sostenitore del movimento dei coloni e, in definitiva, un uomo politico che gli stessi israeliani, o la maggioranza di essi, preferivano tenere ai margini per quel suo torbido passato. Fu proprio quel tour che invece ci confermò che Sharon non era «ai margini», non era un alieno tra sinceri pacifisti desiderosi solo di arrivare a uno accordo con i palestinesi. Al contrario era uno degli esponenti più rappresentativi di Israele e della sua politica, destinato a recitare un ruolo decisivo per anni ancora e a raccogliere tanti consensi in casa (che lo portarono a diventare premier nel 2001) e persino all’estero. Ieri Sharon si è spento all’età di 85 anni, dopo otto anni di coma profondo in seguito all’ictus che lo aveva colpito il 4 gennaio del 2006. Non ci sorprende che da morto sia descritto come un grande statista da alcuni leader occidentali. Ariel Sharon è stato «uno dei personaggi più importanti nella storia di Israele», ha detto ieri il primo ministro britannico David Cameron. «Ariel Sharon è stato un eroe per il suo popolo, prima come soldato, poi come statista», ha aggiunto il segretario generale dell’Onu, Ban ki-moon. «Ha dato la sua vita per Israele» e l’ha dedicata «alla ricerca di una pace giusta e durevole», hanno affermato da parte loro l’ex presidente Usa Bill Clinton e l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Parole di elogio e stima perchè nel 2005 Sharon ordinò il ritiro di soldati e coloni da Gaza. E’ svanito ogni riferimento al responsabile di crimini di guerra, a cominciare da quello di Sabra e Shatila. Senza dimenticare la provocatoria “passeggiata” sulla Spianata delle Moschee che innescò la Seconda Intifada e i sospetti dei palestinesi di un suo coinvolgimento nella morte misteriosa di Yasser Arafat nel 2004. In Israele è diventato quasi un santo. Un giornale ha pubblicato non la foto dello Sharon inflessibile e audace comandante militare ma quella dello Sharon contadino sorridente con al collo un piccolo agnello. L’uomo di Sabra e Shatila è diventato Cincinnato.

In quel tour a cavallo tra la «pace di Oslo» e la Seconda Intifada, Sharon guidò una quarantina di giornalisti su e giù per le colline della Cisgiordania occupata, tra le recinzioni di quelle colonie ebraiche contrarie al diritto internazionale di cui era stato un accanito sostenitore, ripetendo a più riprese e con tono fermo: «Posso assicurarvi che nessun governo israeliano rinuncerà a questa porzione di terra». Aveva ragione. Tutti quei territori che definì «incedibili», rientrano oggi nelle ampie parti di Cisgiordania palestinese che il governo Netanyahu in carica (ma anche quelli precedenti) intende annettere a Israele. Sharon conosceva bene il progetto «nazionale» a lungo termine. Era parte integrante dell’establishment, condivideva con gli “avversari” laburisti le ambizioni strategiche di Israele. Sharon per tutta la sua vita ha pienamente rappresentato Israele. Più del premio Nobel Shimon Peres, ora capo dello stato, chiamato a dare una voce e un volto rassicurante al Paese con le forze armate tra le più potenti al mondo, che ogni anno esporta armi per miliardi di dollari, che occupa da oltre 46 anni un altro popolo. Sharon non aveva problemi ad accettare questa realtà, anzi la rivendicava. Peres invece l’ha mascherata con una retorica pacifista che convince i governi occidentali ma che non trova riscontro nella realtà oggi ben rappresentata dal governo di destra di Benyamin Netanyahu.

Nato il 27 febbraio 1928 nell’insediamento di Kfar Malal da una famiglia di ebrei lituani, Ariel Scheinermann (cambiò poi il cognome in Sharon) iniziò la militanza nel movimento sionista già a 10 anni. Da adolescente prese parte ai programmi di preparazione militare della milizia Haganah, che poi sarebbe diventata Tzahal, l’esercito di Israele. Capitano a 21 anni, evidenziò subito le sue doti di comandante abbinate a una spiccata mancanza di scrupoli. Il 14 ottobre 1953 di quell’anno Sharon, al comando di 200 uomini, diede l’ordine di attaccare nel cuore della notte il villaggio di Qibya in Cisgiordania. Morirono 69 palestinesi, tra i quali donne e bambini, 45 case, una scuola e una moschea furono rase al suolo…in alcuni casi con dentro i civili. I comandi militari dichiararono di essere stati convinti di aver evacuato ogni abitazione prima dell’inizio dei bombardamenti. Negli anni ’70 Sharon, che nel frattempo si era guadagnato i nomignoli di “Arik” e “Bulldozer”, fu nominato ministro dell’Agricoltura diventando determinante per la costruzione degli insediamenti colonici in Cisgiordania, Gaza e a Gerusalemme Est. Per decenni sarà il punto di riferimento privilegiato dei coloni che poi lo malediranno nel 2005 quando, da premier, ordinò il loro ritiro da Gaza.

Il suo marchio però Sharon lo ha lasciato da ministro della difesa. Nel 1982, deciso a spazzare via la resistenza palestinese dal Libano e a portare al governo a Beirut gli amici falangisti libanesi, rappresentati dalla famiglia Gemayel, “Arik , Bulldozer”, all’inizio di giugno fece avanzare le divisioni corazzate israeliane fino alle porte della capitale libanese. A metà settembre, dopo la partenza da Beirut di Yasser Arafat e dei guerriglieri palestinesi e l’uccisione in un attentato di Bashir Gemayel, divenuto presidente all’ombra dei carri armati israeliani, i falangisti ferocemente anti-palestinesi ebbero strada libera per una presunta operazione «antiterrorismo» nei campi di Sabra e Shatila. Fu un massacro orribile, andato avanti per giorni, mentre i soldati israeliani osservavano e non intervenivano. Sharon si difese sostenendo che non ricevuto informazioni sulle intenzioni dei falangisti ma anche il più ingenuo dei politici sa che non si può mandare un lupo affamato in un ovile. «Arik, Bulldozer» non è mai stato portato davanti a una corte internazionale, tutti i tentativi di processare i responsabili di quel massacro sono falliti. Sharon fu costretto a dimettersi da ministro solo perchè una commissione di inchiesta israeliana di fatto ne ordinò, all’inizio del 1983, la rimozione. Sharon lasciò ma già ottenne un ministero senza portafoglio nel biennio 1983-1984. Vale ben poco la vita dei profughi palestinesi.

Dopo la passeggiata sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme nel settembre 2000, Sharon vinse le elezioni e divenne per la prima volta premier. La sua risposta alla Seconda Intifada fu durissima. Nel 2002 dopo una serie di attentati palestinesi ordinò la rioccupazione delle città autonome palestinesi (centinaia i morti) e confinò Arafat nella Muqata di Ramallah, dove il presidente palestinese sarebbe rimasto fino alla malattia misteriosa che nel novembre 2004 lo avrebbe ucciso. Quello stesso anno ci furono tentativi per far processare Sharon all’Aja presso il Tribunale per i Crimini di Guerra, per i fatti di Sabra e Shatila. Ma il principale accusatore e responsabile della strage, Elie Hobeika, fu ucciso e da allora quel massacro è chiuso in un cassetto. Sempre nel 2002 Sharon avviò la costruzione del Muro nella Cisgiordania palestinese. Poi tra il 2004 e il 2005 avviene la «svolta moderata» che fece di Sharon «un eroe della pace» presso i governi occidentali. «Arik» decise di evacuare coloni e soldati dalla Striscia di Gaza. Più che una scelta di pace, si trattava di una mossa strategica. Israele in fondo non aveva mai rivendicato Gaza e Sharon credeva che ritirando coloni e soldati da quel fazzoletto di terra avrebbe poi ricevuto il sostegno internazionale a un disegno volto ad impedire la nascita di un vero Stato palestinese in Cisgiordania. E alle proteste del suo partito, il Likud, reagì fondando con Peres un partito “centrista”. L’ictus del 2006 lo tolse all’improvviso dalla scena. La sua eredità politica, passata a Benyamin Netanyahu, è sempre presente. E lo sarà ancora per molti anni.