Lo scorso 28 gennaio, il tribunale di Jdeideh a Beirut, nella persona del giudice Naji El Dahdah, ha spiazzato una buona parte dell’opinione pubblica e, sicuramente in senso positivo, la comunità lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), rivelando un’apertura di vedute davvero insperata. L’accusa era, nei confronti di una transessuale, di avere avuto rapporti sessuali con un uomo. Ma questa volta, l’incerta impalcatura della legge 534 è crollata al suolo. Perché, ha sostenuto il giudice che ha respinto il caso, non si è neppure potuto parlare di rapporto tra due persone dello stesso sesso, dato che una delle due era transessuale, quindi donna.

«La realtà del Libano», racconta Tarek Zeidan, attivista impegnato con l’organizzazione che compie oggi dieci anni Helem, e con la rivista Barra, entrambe dedicate alla difesa dei diritti lgbt, «qui è molto diversa da tutti gli altri paesi del Medio Oriente, dove esistono ancora leggi antisodomia. Qui non abbiamo leggi di questo tipo, ma ne esiste tuttavia una, la 534, che punisce gli atti sessuali “contro natura”». Cosa significa però «contro natura», ovvio, dipende molto da chi la legge la interpreta e la applica. Se si viaggia a ritroso di solo pochi anni, ci si rende conto che tante cose stanno cambiando rapidamente. Se un tempo si poteva rischiare realmente di passare una o più notti in prigione, di essere torturati, spogliati, umiliati, adesso quest’eventualità è diventata sempre meno possibile anche se tutto, comunque, dipende sempre da chi giudica. «A volte – prosegue Zeidan -, in processi simili a questo, se chi sta valutando il caso vuole proprio arrivare a una sentenza di colpevolezza, possono essere aggiunte accuse di spaccio di droga o prostituzione, dato che molti transessuali, non trovando facilmente lavoro, arrivano spesso a vendere il proprio corpo». Ma il vero problema è rappresentato da quella legge molto confusa che dice tutto e niente, che sentenzia come una sibilla chi deve, può, non può essere condannato.

Cosa vuol dire «sesso normale»? Fino alla storica sentenza del dicembre 2009, il rapporto omosessuale valicava sicuramente la linea della legalità. Ma, dopo quella data, in cui il giudice aveva sentenziato che un rapporto sessuale tra due uomini non è contro natura, l’aria ha cominciato a essere un poco più leggera. «Di fatto – aggiunge ancora Zeidan – il giudice aveva detto semplicemente che le due persone denunciate, due uomini in questo caso, non andavano processate secondo la legge 534, ma solo per pubblica decenza». Da allora sono cominciate ad arrivare altre piccole vittorie. L’associazione degli psicologi ha tolto l’omosessualità dalla lista delle malattie. Il sindacato dei medici ha deciso che nessun medico coopererà più con le forze dell’ordine per valutare se una persona è gay o no, dopo che, nel 2011, in uno show televisivo, è stato mostrato un cinema gay dove non si vedeva nessuna presenza di polizia (per mantenere la sicurezza, dicono). La polizia è stata presa in giro, ma è arrivata velocemente e ha arrestato circa 30 persone. Impettiti allora nelle loro divise, i poliziotti avevano chiesto di far valutare a medici se le persone nel cinema fossero gay attraverso visite molto particolari. «Hanno addirittura trovato una legge francese del 1920, dico, del 1920! – dice Tarek infastidito -, in cui si spiegava come decidere se un uomo è gay. Senza entrare in particolari inutili e spiacevoli, sono state usate delle uova di plastica e tre persone sono state ritenute essere omosessuali». Quest’anno invece, il caso è stato quello di un uomo che è stato trovato in macchina con una transessuale. «Il fatto che ci fossero state altre sentenze negli ultimi anni a favore della comunità gay, ha aiutato molto. In questo caso poi, hanno riconosciuto che il transessuale non è un uomo ma ormai una donna, e quindi il crimine proprio non sussiste. Lo so, la legge è molto vaga, imprecisa. Quello che ancora è molto vero è che se c’è un giudice omofobo possiamo ancora avere molti problemi. Dipende davvero tutto da quello che pensa e crede il giudice. La cosa positiva però è che ci sono state sentenze a nostro favore di cui gli altri giudici, in futuro, dovranno sempre e comunque tenere conto».

Tentare di cambiare la legge, ancora, è ritenuto pericoloso. «Anche se questi giudici sono stati molto aperti e comprensivi – spiega Tarek – dobbiamo ricordarci che il Libano ancora non lo è. Abbiamo bisogno del 50% della gente. Se in Arabia Saudita le cose sono molto chiare e non ci si può sbagliare (purtroppo), qui toccare la legge potrebbe anche portarci nella direzione opposta rispetto a quello che vogliamo realmente raggiungere. Non possiamo, non dobbiamo parlare di cambiare la legge, se prima non prepariamo la gente, la società. Stiamo lavorando con le forze dell’ordine così che, se dovessero mai arrestare un gay, la polizia non lo torturi, e che un transessuale non va messo in una cella con uomini. Ecco, noi adesso stiamo lavorando con medici, avvocati, abbiamo cominciato anche a lavorare con insegnanti e studenti, con le nuove generazioni. Lavorare con la società in generale è altrettanto importante ed è davvero l’unico modo per raggiungere tutti. Meglio ancora se ci aiuteranno i media, come per altro stanno già facendo. La televisione può essere molto utile, ma qui in Libano (siamo un paese davvero molto piccolo), un gay non avrà mai – o per lo meno adesso non l’ha – il coraggio di andare in televisione a raccontare la propria storia, come fanno invece negli Stati Uniti e in Europa. Aveva cominciato a farlo negli Stati Uniti Jerry Springer, poi Oprah Winfrey… Loro hanno parlato con gay, lesbiche, transessuali dei loro problemi di tutti i giorni. La gente ascolta, si commuove con Oprah, capisce e comincia a rispettare di più chi è diverso. Le nuove generazioni sono sicuramente la speranza, ma è anche vero che i giovani spesso non hanno il coraggio di parlare con la propria famiglia. Ma credo sia un percorso che, una volta partito ed è partito!, continuerà a procedere senza grandi problemi, anche se la strada è complicata. In Medio Oriente e in Asia ci sono molte influenze dall’Islam e spesso le situazioni sono davvero difficili, soprattutto nelle regioni dei villaggi, lontano dai grandi centri metropolitani. Ci vuole un percorso che non s’interrompa e che proceda con continuità, anche se lentamente. Dobbiamo proseguire, ma non con i modi che sono stati usati da Usa o Europa. Dobbiamo partire dal modo in cui le persone pensano qui, e aiutarle a vedere questa realtà con occhi diversi. Non dobbiamo agire come in Occidente, perché sarebbe facile accusarci di essere un loro prodotto che ha solo snaturato la nostra identità. Bisogna far capire che gay, lesbiche, bisessuali ci sono sempre stati. Ma dobbiamo stare anche molto attenti a non aprire un vaso di Pandora. Possiamo criticare la Chiesa, la Moschea ma, se cominciassero a combatterci, noi non avremmo modo di difenderci, visto che la legge non ci protegge. Nessuno ci protegge, il sistema politico non considera i diritti umani come la cosa più importante».

Ma intanto, questo esercito pacifista e combattivo, ha già cominciato a confrontarsi nelle università (come nell’American University of Beirut). Ci sarà presto un incontro in cui persone omosessuali potranno avere un’occasione per parlare delle proprie difficoltà nella vita di tutti i giorni, a casa, a scuola, con la gente in generale, con la ricerca di un lavoro, è una prima importante occasione per parlare di qualcosa che è stato ignorato per tanto, troppo tempo. Comunque, il vero obiettivo, per cominciare, è davvero quello di far capire alla gente un punto di vista diverso, quello di un omosessuale. «Abbiamo bisogno di persone etero che ci capiscano, ci appoggino, che ci aiutino a far capire che non c’è niente di cui avere paura. Alla fine vorremmo che tutto fosse naturale. Come abbiamo aiutato, e aiutiamo tuttora, i rifugiati palestinesi, siriani, gli handicappati, gli anziani, ecco! dovremmo aiutarci tra noi tutti. La gente potrebbe finalmente capire che non esiste pericolo. Proprio Georges Azzi, uno dei fondatori di Helem e oggi direttore dell’organizzazione, con base a Beirut, Affe (Arab Foundation for Freedoms and Equality), lavora in tutto il Medio Oriente per diffondere una cultura di tolleranza. Non è semplice per chi vive in città ma, per esempio, in un piccolo villaggio sulle montagne, anche solo parlare con la propria famiglia diventa davvero impossibile. Qui, nell’ufficio nella zona di Ashrafieh , aiutano a organizzare programmi da portare in tanti paesi mediorientali e nordafricani, aiutano a preparare attivisti in Marocco, Tunisia, Egitto, ovunque, e ci si occupa di sicurezza, supporto, diritti, problemi sanitari.

«Tra le difficoltà più grandi – spiega Georges -, esiste non tanto la chiusura dettata dal proprio credo religioso, ma da differenze sociali molto grandi. La parte di popolazione più difficile per parlare di omosessualità è sicuramente quella di gente che vive nelle zone rurali, lontane dalla città, che sono sempre le più conservatrici. Questo succede sia in Libano che in un qualsiasi altro paese mediorientale. E la “novità” dell’omosessualità, in questi casi, fa ancora molta paura. La nostra sfida è semplicemente quella di preparare la gente a parlarne e ascoltare senza troppi pregiudizi».