Silvio Berlusconi è stato condannato con sentenza definitiva a quattro anni di carcere per frode fiscale, mentre è stato rinviato alla corte d’appello per la sola rideterminazione della pena accessoria per la interdizione dai pubblici uffici, erroneamente calcolata in cinque anni. La cassazione, senza farsi risucchiare dentro le larghe intese come la si supplicava da più parti, ha fatto il suo mestiere di giudice di legittimità riaffermando la correttezza delle due sentenze conformi di merito: questa volta non ci sono state toghe rosse contro cui imprecare. I giudici di Milano hanno dimostrato con i fatti che il Cavaliere, pur negando sdegnato il conflitto d’interessi, ha sempre diretto Mediaset e non c’è da scervellarsi per capire come se l’è ripetutamente cavata prima, con leggi ad personam, la prescrizione abbreviata, il falso in bilancio cancellato ed altre simili abnormità. Con un curriculum giudiziario di tal fatta, specie dopo lo scandalo della sentenza Mondadori e della prescrizione per corruzione della Guardia di finanza, in un altro paese sarebbe già scomparso politicamente da tempo, mentre da noi ha resistito anche grazie a venti anni di virtuosa opposizione di facciata e di supporto al suo impero televisivo, con il conflitto di interessi sempre agitato come spauracchio e mai tradotto in legge.
Certo in un paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica, ma in uno stato di diritto, dove la separazione dei poteri è il cardine della democrazia, anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere. Non a caso, proprio su questo punto il Pdl, sempre pronto a scagliarsi contro la politicizzazione della magistratura, negli ultimi tempi aveva invocato un atto di responsabilità della Cassazione e, cioè, una sentenza politica di assoluzione che mettesse da parte i problemi giuridici risolti nei primi gradi del merito e difendesse il quadro istituzionale su cui oggi si regge la non troppo strana maggioranza di governo.
Quando arriverà la pena accessoria “rideterminata” si porrà il problema della decadenza del Cavaliere dal suo status di senatore con una pronuncia del Senato, dato che per l’art. 66 Cost. è questo che dovrà giudicare delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e incompatibilità di uno dei suoi membri. Credo che il Senato dovrà solo prendere atto della sentenza poiché il godimento dei diritti civili e politici è una precondizione per essere eletti e per continuare a far parte del Parlamento: a meno che non si vorrà riproporre, questa volta in maniera devastante per le istituzioni, la farsa del voto sulla nipote di Mubarak.
Qui i dilemmi del Pd si accentueranno e, a fronte di una tradizione ventennale di salvataggio del Cavaliere e di una strenua difesa del governo Letta, le rassicurazioni provenienti da quell’area non rassicurano affatto. Ne è un indizio la strana intervista data ieri a Repubblica da Dario Stefàno, ex democristiano prestato a Sel e presidente della giunta del Senato per le autorizzazioni, nella quale si prevedevano tempi lunghi per la decisione con una eventuale: “apertura di una complessa, e credo non brevissima, fase di approfondimento istruttorio anche attraverso l’attivazione di un eventuale apposito comitato inquirente”. Con anni di giurisprudenza parlamentare alle spalle e con la Costituzione e leggi elettorali alla mano, ci sarà davvero da insediare un “comitato inquirente” per stabilire che chi non gode più dei diritti politici non può sedere in Parlamento?
Pena accessoria e interdizione a parte, è difficile dire quello che ora succederà al governo e alla legislatura anche perché lo scenario è inedito, ma i buoni samaritani del centrosinistra non potranno più far finta di nulla di fronte ad un leader della destra condannato per frode fiscale nel contesto di un conflitto di interessi conclamato e passato in giudicato. C’è materia per tentare di risorgere ma anche per continuare a precipitare attratti dal baratro della governabilità.