Seattle, downtown. Westlake park, il cuore della città, è stracolma di homeless. Bevono, cantano, chiacchierano. Da uno shelter, un rifugio per la notte, incastonato tra un bar trendy e un negozio di abbigliamento esclusivo, esce un uomo in carrozzina. Joseph è il primo barbone con cui mi fermo a parlare. Ha un cognome impronunciabile, una faccia simpatica e le braccia coperte di tatuaggi indiani. È sulla quarantina, ma gli anni di strada trasudano dai suoi occhi acquamarina. Forse perché il mare è la sua vita. O almeno lo è stato fino all’incidente che lo ha costretto a chiedere l’elemosina su questa maledetta sedia a rotelle. Aveva cominciato alla grande, Joseph, dedicando ogni gesto al raggiungimento del suo sogno: una barca tutta sua dove vivere e pescare in solitudine. Così, dopo le scuole, si era imbarcato sui pescherecci che, tra settembre e dicembre, solcano il mare di Bering, tra l’Alaska e la Russia, a caccia di quei king crab che al Pubblic Market trovi a trenta dollari la libbra e nei ristoranti esclusivi di New York, Milano e Parigi, a settanta euro a chela. Perché la pesca del granchio reale è una della attività lavorative più pericolose degli Stati Uniti. Il Bureau of Labor Statistics stima che questo tipo di occupazione – con il più alto tasso di mortalità in assoluto (75% superiore a quello di piloti, assistenti volo e guardie forestali) – provochi più di 300 decessi ogni 100 mila lavoratori. Oltre l’80% di queste morti sono causate da annegamento e ipotermia, incalcolabili le lesioni invalidanti. «Mentre sei sul ponte ad armeggiare con un verricello, può capitare che si scateni una tempesta, arrivi un’onda di dieci metri che travolge il peschereccio e ti succhi via – dice Joseph – ne ho visti una mezza dozzina scomparire nel nulla».

Joseph ha scelto il rischio perché quello è forse il migliore dei modi leciti per fare tanti soldi velocemente: «Ho iniziato come un novellino e in tre anni ho messo da parte il denaro per comprare il mio sogno». Il suo sogno era lungo dieci metri, una cabina con due posti letto e una stiva gigantesca. Con il suo peschereccio, Joseph ha lasciato Seattle diretto verso il Grande Nord. Quello dei cercatori d’oro nel Klondike raccontati da Jack London che proprio qui facevano l’ultimo rifornimento di carne secca, indumenti, setacci. Solo che quelli come Joseph non cercano oro ma ricci di mare, lì nelle gelide correnti dello stretto di San Juan de la Fuca, oceano Pacifico, al confine con il Canada: «Ci vuole una buona muta subacquea e palle d’acciaio per immergersi in quelle acque scure e ghiacciate». I ristoranti giapponesi vanno pazzi di uni (i ricci di mare) che sul mercato nipponico raggiungono i 150 dollari la libbra. Era pieno di futuro Joseph. Poi, un giorno, una stupida caduta e l’uomo si sveglia in ospedale immobilizzato dal bacino in giù. Naturalmente non aveva assicurazione, «troppo cara», dice. Così l’ospedale gli porta via la barca. Perché qui funziona che se fallisci perdi l’impresa, ma se sei un imprenditore di te stesso senza assicurazione, sei finito: Joseph è finito in carrozzina per le strade di Seattle, campando di elemosina e assistenza.

Fortuna che questa è una metropoli accessibile. Dai non vedenti ai tetraplegici immobilizzati su carrozzine mosse con speciali sensori collegati alla bocca, chiunque qui può muoversi in autonomia, prendere autobus e traghetti, andare al cinema. Tanto che all’inizio pensi che ci sia qualcosa che non va, data la moltitudine di portatori di handicap di ogni ceto sociale per la strada. Poi capisci che puoi vederli perché sono semplicemente liberi di vivere. Ma se sei un barbone carrozzato e bruciato dall’alcol non vai lontano. Così Joseph bazzica il centro, dove è tornato cinque d’anni fa dopo l’incidente: «Con due dollari e cinquanta arrivo in aeroporto», dice mentre guarda, assorto, le nevi perenni del Monte Rainer, il vulcano attivo che incombe su Seattle. Ma non ha mai preso un aereo, lui, che vive tra questo braccio di oceano chiamato Puget Sound e Lake Washington.

Non come Sabrine, venuta su da Bodega Bay, California (famosa perché Hitchcock ci ha girato Gli uccelli), per i programmi sociali dedicati agli homeless come lei. Una sorta di turismo sociale, il suo. Del resto il 14% degli assistiti non è residente. Perché questo modello di welfare attrae «nonostante il sole scompaia a ottobre per riapparire a marzo, le strade gelino, il vento s’incanali tra i grattacieli sparando proiettili di ghiaccio». Dopo tre anni di marchette in strada, Sabrine ha seguito un percorso di disintossicazione e ora è entrata nel programma di assistenza per donne con minori che prevede una stanza per sé e il figlio e un lavoro come inserviente in una scuola pubblica. «È andata bene», dice la donna che esibisce una magliettina nera attillata sulla sua quarta di seno con una foto di Kurt Cobain in bianco e nero, quello che resta del grunge, nato qui come la Boeing, Microsoft, Amazon e Starbucks.
È proprio davanti al primo, storico, locale Starbucks – aperto nel 1971 e ora meta di pellegrinaggio di turisti che amano fotografarsi sotto l’insegna originale, l’unica rimasta con la sirena a due code nuda su campo verde, modificata invece per coprire le vergogne nei 19 mila caffè della catena sparsi nel mondo – che incontro Robert. Come altri artisti di strada che si esibiscono di fronte al Pike Place Market, Robert ha inventato un numero eccezionale per alzare un centone al giorno durante la stagione estiva (Seattle è la terza meta preferita dai turisti americani). Prima inizia a far girare due hula hop attorno al bacino, poi sistema una chitarra in equilibrio sul mento, quindi estrae dal marsupio un cubo di Rubik che risolve nel giro di pochi minuti. Una roba da non credere. «Mi metto in tasca diecimila dollari l’anno – dice – perché il mio sogno è andare in Italia a studiare arte rinascimentale. Così, pur potendo pagare un posto letto, d’estate dormo in strada e d’inverno negli shelter».

Robert mi accompagna alla Public Library sulla Quarta Avenue, dove passa il tempo quando non può esibirsi. È un edificio del 2004 in vetro trasparente e acciaio alto undici piani. Chiunque può entrare senza controlli, prendere un libro o un dvd e consultarlo in una delle centinaia di scrivanie con prese elettriche e luci: «La tessera serve solo se vuoi portare i libri fuori». Le sale lettura sono piene di barboni con i loro classici fagotti di stracci e buste di plastica: leggono, sonnecchiano, guardano film. «Qui la gente di strada è tollerata», dice Robert. Come nel resto della città, ribatto io. Robert storce la bocca: «Non tutto è come appare». Tra il settimo e l’ottavo piano c’è un tizio sulla cinquantina, barba ispida, giacca lercia e cuffie calate sulle orecchie che si gode una fellatio in primissimo piano su uno dei computer pubblici. Robert mi strizza l’occhio: «Fa parte della famosa tolleranza dei seattleites».
Alla fine del nostro tour, prima di salutarmi, mi ricorda di non andare via senza aver visto la statua di Lenin a Fremont. In questo quartiere di artisti a nord di downtown e del residenziale Queen Anne Hill, uno dei sette colli di Seattle, venti anni fa un tipo ha installato una statua di bronzo raffigurante il capo bolscevico, alta cinque metri per sette tonnellate, acquistata in Slovacchia dopo la rivoluzione di velluto. «L’ha pagata poco, ma s’è rovinato per trasportarla. Ora gli eredi vorrebbero venderla per duecentomila dollari», dice Jack, un uomo allampanato con una sessantina di primavere sulle spalle e un paio d’occhiali con le lenti simili a fondi di bottiglia. Per guadagnare qualcosa si è improvvisato guida turistica e oggi è circondato da un gruppo di giovani studenti orientali. Jack è uno yankee rosso che avrebbe voluto essere John Reed e invece gli è toccato in sorte nascere quaranta anni dopo l’Ottobre del 1917 a Seattle, dove ha insegnato storia in un liceo. Fino all’incidente stradale in cui hanno perso la vita sua moglie e il loro figlio neonato.
Alla depressione è seguita la perdita del lavoro, le mense per i poveri, la banca che s’è ripresa la casa perché Jack non pagava più il mutuo. Insomma, la classica traiettoria discendente che porta una persona a toccare il fondo. «La strada è un’esperienza diffusa nella società liberale. Ma non mi lamento: ho avuto anche la fortuna di visitare l’Urss quando c’era il comunismo». Una ragazzina giapponese gli chiede: «Che cos’è il comunismo, professore?». Jack sbuffa: «È una società dove tutti hanno casa e lavoro». Anche lui segue un programma di workfare che prevede lavoro in cambio di servizi. Così per tre giorni a settimana insegna inglese per una charity che gli fornisce un posto letto e pasti caldi. Sull’autobus di ritorno, che passa sotto lo Space Needle, famoso per la serie Grey’s Anatomy, trovo uno schizzato che parla da solo. Fa parte di quel 30% di disagiati mentali, molti dei quali veterani di una qualche guerra, ieri il Vietnam oggi l’Iraq, che vivono sulle strade di Emerald City, com’è chiamata Seattle. Per loro ci sono centri di salute mentale diffusi in ogni angolo della città, specie in centro.

(…) Sull’Alaskan Way un vecchio indiano intaglia totem nel legno di balsa: «Ogni pezzo una storia. Un dollaro per i piccoli, dieci per i grandi». (…) La sua è la storia dell’indiano che può vendere tutto fuorché il suo nome, uno dei circa 5 mila senzatetto (su 620 mila abitanti) assistiti grazie al Comitee to End Homelessness, il programma pubblico che da una quindicina d’anni è l’ossatura del modello di pronto intervento per le persone senza dimora nella King Court di Seattle (3,5 milioni di residenti). Con un budget di 100 milioni di dollari annui, il sistema prevede che il pubblico e il terzo settore stanzino complessivamente 54 milioni, la filantropia privata 46 milioni. Con questi soldi si finanziano spazi di prima accoglienza (circa 4 mila posti letto), mense, centri per l’impiego, housing sociale (15 mila alloggi). Il programma prevede interventi in favore di madri sole, famiglie di strada, adulti cronici.

Quello che fa di Seattle una città solidale non sono solo i fondi per l’assistenza ai senza casa, ma le sue reti, il programma di housing, l’assenza di barriere architettoniche, l’efficienza dei trasporti, la quantità e la diffusione di bagni pubblici sempre puliti e di biblioteche gratuite. Insomma l’inclusione, l’accessibilità e il rispetto per l’individuo. Oltre, naturalmente, all’azione politica di Real Change, uno dei giornali di strada più famosi e agguerriti del mondo: «Abbiamo umanizzato la figura del senzatetto», commenta soddisfatto Tim Harris, il suo direttore e fondatore, che incontro nella sede del settimanale (tre piani in un bel palazzo ottocentesco a Pionieer Square). Con una tiratura di 900 mila copie, Real Change è una spina nel fianco di ogni sindaco. «L’industria del turismo, quella del cemento e i benpensanti vorrebbero espellere gli homeless da downtown. Li criminalizzano, ma non è questa la via. Le soluzioni sono servizi pubblici e decoro urbano per evitare l’effetto broken windows. E poi politiche serie per casa, lavoro e salari dignitosi. Reinserimento, altro che gentrificazione!».

Fuori dalla finestra, una bandiera a stelle e strisce sventola vicino un totem indiano di dieci metri. Il tramonto incendia le foglie di vite americana attorcigliate ai piloni della tipica sopraelevata anni Cinquanta che tra qualche mese sarà demolita per restituire alla città la vista del mare. Siamo nel cuore del neoliberismo, eppure nel ricco e colto Stato di Washington, noto per il suo bilancio in attivo e il primato di libri letti per abitante, si respira un’aria diversa, fatta di solidarietà.

*** Il pezzo che pubblichiamo in questa pagina è un’anticipazione del nuovo numero della rivista trimestrale Il Reportage. Il giornale (da oggi in libreria) apre con un’intervista a Gianni Berengo Gardin, storico fotoreporter italiano, con una sua foto inedita scattata nel 1957 nel self service del Louvre.