Nella grande cucina del Micio, scaldata da una stufa a legna, occhi attenti guardano le dita veloci che danno la forma ai «marubini», la pasta sottile stesa sul tavolo, secondo la ricetta che si tramanda in casa Azzali. D’improvviso squilla il telefono. Una conversazione breve, concitata, e il Micio calatosi sulla testa l’immancabile berretto rosso, le mani ancora sporche di farina, ci dice di uscire. «Presto, dobbiamo andare a cercare subito Giüsep, è mezz’ora che non risponde al cellulare». Così si va di corsa verso Piadena, prima davanti casa di Morandi, poi nel bar del paese, dove di solito si ferma a prendere un caffè, tra telefonate e frasi veloci scambiate con altri compagni. Dopo poco, Giuseppe ci chiama: «Ma sto bene, sto bene. Sono andato solo a farmi una passeggiata lungo l’Oglio e ho dimenticato il cellulare a casa» – e si intuisce che se la ride, contento di tutta questa attenzione, di tanto trambusto. Il Micio non vuole darlo a vedere, ma pare rinato: di nuovo ciarliero, pieno di energia, scarica l’ansia trattenuta fino a quel momento sullo stesso Morandi con rimbrotti e proteste veementi per tanta leggerezza.

Ecco, tra loro c’è un legame così, che dura ormai da cinquant’anni, stretti in un sodalizio politico, artistico e di vita che li vede ancora oggi attivi organizzatori culturali, coinvolti nelle miriadi di iniziative promosse dalla Lega di Cultura di Piadena, da loro fondata nel 1967 insieme a Pierino e la Genia, i genitori di Micio. L’associazione, che ha «base operaia e contadina e si richiama al movimento delle Leghe di resistenza contadine», come recita lo statuto, ha sede nella cascina degli Azzali, il luogo dove ogni anno si celebra la festa della Lega. Per tre giorni il «mondo intero» si riunisce a Pontirolo, con dibattiti e concerti in cui ai canti popolari italiani si mescolano quelli del Bangladesh, del Kurdistan, e dell’ India, dell’Afghanistan, dell’Ecuador, o della Romania.

Una storia ricca e intensa, la loro, che vale la pena raccontare.

Giuseppe Morandi, nato al Vho, una frazione di Piadena, da una famiglia contadina e operaia, e Gianfranco «Miciu» Azzali, bergamino figlio di bergamini (gli allevatori delle vacche, ndr), iniziano la loro avventura quando una sera Gianni Bosio – instancabile protagonista di un lavoro di ricerca e di organizzazione culturale, che ha messo al centro la storia del mondo popolare e delle classi non egemoni – propone al Micio di curare un’inchiesta sulla condizione dei bergamini: «Perché il Miciu fa il bergamino». Uno stimolo ad acquisire consapevolezza della propria condizione in maniera attiva, attraverso l’organizzazione di assemblee e dibattiti per raccogliere le testimonianze dei mungitori di vacche della zona.

A dire il vero Morandi aveva già iniziato da qualche anno a documentare il mondo e la cultura contadina, stimolato dal maestro Mario Lodi, dapprima partecipando alla produzione dei Quaderni di Piadena, in seno alla attività della Biblioteca Popolare, e poi accogliendo con entusiasmo la proposta di usare anche la macchina fotografica e la cinepresa come mezzo di documentazione storica. Fotografie, film e racconti che vanno a circoscrivere una raccolta di testimonianze sulle modifiche subite dalla piccola comunità agricola, ma che al contempo riverberano quanto accadeva in tutto il Paese, e che si iscrivono intimamente nella biografia del suo principale testimone.

Morandi però riconosce che il suo modo di guardare la civiltà contadina muta profondamente, rispetto a quelle prime esperienze: dalla nostalgia per un mondo che andava estinguendosi subentra, infatti, una nuova consapevolezza politica. Per sua stessa ammissione, chi lo fa «entrare in un rapporto di classe aperto nella vita di Piadena» – come si legge nel libro Il muro di Piadena – «è stato proprio il Miciu», cui Morandi riconosce l’importanza di avergli «fatto vedere la realtà dei rapporti all’interno dell’agricoltura […], come lui questi rapporti li subiva e li contrastava, come lottava per migliorarli». Da allora, prosegue con lucidità e generosità: «Fotografo questa condizione contadina osservando il rapporto tra salariati agricoli e l’agrario, cioè con l’occhio del Miciu appartenente a questa categoria come subalterno».

Questo aspetto politico della sua produzione emerge evidente nel ciclo de I Paisàn, straordinari film in 8mm, girati in bianco e nero, in cui vengono ritratti i gesti del lavoro e la sapienza contadina degli abitanti dell’area del Po. Con una camera amatoriale a molla, prestata di volta in volta da qualche amico o conoscente, e poca pellicola, Morandi – spesso accompagnato dal Micio, che registra il suono in presa diretta – filma la classe e la cultura di cui fa parte, ossia quella dei contadini della Bassa Padana. Siamo di fronte alla prima vera analisi dall’interno fatta in Italia – per dirla con le parole di Marco Müller che nel 1999, quando era direttore del Festival di Locarno, rende loro omaggio presentando questi lavori per la prima volta in edizione integrale. Basta vedere per esempio Jön du tri quater sac, (1967) in cui viene filmato il momento della divisione del granoturco nell’aia del padrone per farsi un’idea. Qui i protagonisti sono i braccianti, che abitano nel cortile, dove vivono anche gli Azzali, intenti a insaccare il granoturco. A seconda degli accordi stipulati con il padrone, – come si legge in uno degli asciutti racconti inseriti nella raccolta La proprietaria del morto – , «se [ERA]a terzo su tre sacchi uno era nostro, se a quarto su quattro sacchi uno era nostro».

Del granoturco coltivato dai braccianti, da coloro cioè che avevano faticato a lavorare la terra durante l’anno, solo una piccola parte rimaneva loro, come mostra chiaramente la disposizione dei sacchi sull’aia della cascina. Scegliendo di tenere assieme nella stessa inquadratura i due gruppi di sacchi di granoturco, di cui uno è visibilmente più numeroso dell’altro, vengono mostrati con sintetica efficacia i rapporti di potere che intercorrono tra il padrone e i paisàn.

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Una testimonianza diretta, dunque, con una forte dimensione personale, caratterizzata dalla volontà di produrre un documento storico – in questo senso in linea con altre esperienze di cinema amatoriale come A Groningen Conquest, (1939) citato da Roger Odin. Ma soprattutto una testimonianza eccezionale all’interno del cinema amatoriale (e non solo del cinema), dal momento che le riprese sono guidate da un occhio interno a quella stessa classe sociale, di cui si vogliono dare volto e immagine. Miciu e Murand hanno chiara la consapevolezza che la documentazione per immagini restituisce dignità e potere a chi ne è privato e ha la capacità di riscattare la classe non egemone dalla propria condizione subalterna. Un pensiero spregiudicato, il loro, non facile da far accettare persino agli stessi bergamini e braccianti che, infatti, si rifiutano di appendere in casa le foto di Morandi. Quegli scatti, spiega il Miciu, che li ritraggono nei loro momenti di lavoro, fissano una condizione che si vuole dimenticare, vissuta con umiliazione, e per questo relegati lontano dalla vista, inchiodati piuttosto alla porta della stalla. Mentre la scommessa da parte loro è quella non solo di rendere consapevoli i soggetti ripresi della necessità di quella documentazione, che parte dal basso, ma anche mostrare quelle fotografie di fronte all’intera comunità. Morandi lo sa bene, «l’immagine è potere», e «acquisire il diritto all’immagine vuol dire acquisire potere»: era necessario creare un’immagine di classe che fosse originata da chi di quella classe faceva parte.

Morandi continua per tutti questi anni a documentare in mostre e libri di fotografia, non solo la condizione di chi non ha modo di accedere ai mezzi di comunicazione, ma anche il profondo cambiamento che investe la Bassa Padana – che si può sintetizzare in un duplice movimento migratorio, prima quello che svuota le campagne per la città, con la progressiva e massiccia meccanizzazione della campagna, e poi quello che le riempie di popoli stranieri, come avviene ormai in maniera consistente dagli anni Novanta. Quest’ultima infatti è l’ennesima trasformazione della zona della Bassa, in cui i migranti, ossia la odierna classe non egemone, sostituiscono gli antichi paisàn e bergamini nel settore agricolo e in particolar modo nelle aziende zootecniche. Tra le mansioni più frequenti, cui si dedicano questi uomini provenienti per lo più dall’India e dal Pakistan, vi sono la mungitura e l’allevamento del bestiame, come si vede negli scatti raccolti in La mia Africa, o in Vecchi e nuovi volti della Bassa Padana, in cui ancora una volta – fedele e coerente con il suo percorso politico – Morandi dà visibilità a coloro che oggi sono portatori di una cultura radicalmente alternativa a quella egemone.