Leggendo i versi di Rocco Scotellaro penso alla mia infanzia, cominciata quando il mondo contadino stava finendo. Ma forse ho fatto in tempo a sentire qualcosa che si sforzava di resistere, di non cambiare. E allora adesso mi viene in mente quel tempo e questo, le loro differenze. Penso alla vampa del focolare, penso alle nevicate notturne, alle mattine in cui la neve rimpiccioliva le finestre. Il paese di adesso è raggiunto dalle immagini che calano dalle antenne. E nel computer vedi quello che puoi vedere ovunque. La vampa della tua esistenza non sembra più salire da un luogo ma solo dal tuo corpo.

Nessuno pensava al paese e meno ancora alla comunità. Il pensiero era per le cose, la stella, il mezzo litro di vino, gli uccelli, il fumo, il cuore delle madri, la polvere e la pece, le scarpe, le scope, la sera, il vento e la neve, l’albero e la fontana. Il paese non discorreva di se stesso, l’orizzonte era chiuso. Oggi tutto è aperto, squarciato, la forma di ogni cosa è appoggiata su una ragnatela di parole.

Il luogo dove sto scrivendo una volta era la stanza della frutta. Andavo a prendere le banane o le arance. Adesso è da qualche anno che non mangio più arance. Ho paura che mi diano il reflusso e quando mi viene il reflusso è come se mi venisse un infarto.

Ora la frutta non c’è più. Fra qualche giorno tornerò con tutta la mia famiglia ad abitare nella casa in cui sono nato. Per prima cosa abbiamo trasferito i computer e una piccola parte dei libri. Il tempo che passo a spostare i libri non è di molto inferiore rispetto a quello che passo a leggerli.

Oggi ho letto ancora Scotellaro. Ho letto anche una parta dell’indegna recensione che gli dedicò l’attuale Presidente della Repubblica. In questo caso le vicende del corpo sono importanti. Si può pensare che il poeta lucano sia morto perché dentro la sua aorta ha provato a far passare tutti gli affanni del suo popolo. Era un affanno che trapela anche in queste versi: «Non gridatemi più dentro,/ non soffiatemi in cuore/ i vostri fiati caldi, contadini». Nel caso di Napolitano mi pare di vedere un’accorta gestione della propria vita, più che della Nazione che presiede. Scotellaro e Napolitano erano quasi coetanei, due modi diversi di vivere la grande avventura della sinistra novecentesca. Il poeta di Tricarico è più cruciale di Napolitano, non solo perché è un poeta, ma perché la mente contadina è molto più vicina a certe modalità di funzionamento della rete rispetto alla mentalità dialettica e storicista su cui si è formato Napolitano.

La contrapposizione non è tra politica e poesia, visto che Scotellaro è stato sindaco e poeta. La contrapposizione è tra la mente, tutta incanalata nella logica causa-effetto, e il cuore, incardinato sulla compresenza, sulla coesistenza (la poesia non è altro che la coesistenza di sogno e ragione). A me appare evidente che la logica della rete è più vicina al pensiero arcaico che Napolitano rimproverava a Scotellaro a proposito dei suoi Contadini del Sud. In fondo ognuno ha continuato per la sua strada. Il politico migliorista ha raggiunto la migliore delle cariche possibili per un politico. Il giovane poeta ha raggiunto precocemente la morte, forse la migliore delle posizioni possibili per apprezzare il lavoro di un poeta.

«Il serpente nero, steso sul muro, era mio padre che mi sbarrava il passo. Tutte queste malattie di oggi sono perché hanno spogliato i boschi perché prima rimanevano soffocate nelle chiome degli alberi». Leggendo questo frammento di Scotellaro mi è venuto in mente Kafka. Un accostamento che mi pare di non aver mai letto negli scritti sul poeta lucano. Troppo facile ed evidente la via del «poeta della libertà contadina». A me pare ci sia altrettanto evidente un poeta scuro, ingabbiato. E allora vado a cercare tra i suoi versi sostegni alla mia improvvisata tesi.

Ecco il primo: «I topi sentono gli occhi/ quando mi sollevo a vederli./ Si muovono con gambe lunghe/ di uomo nella stanza./ Resistono perché sanno/ che anche io alla fine mi addormento/ e per loro sarà libero giuoco./ La coda è la grande ala/ che raschia e con quella/ il topo vola dai buchi/ pallottola dall’animo/ dei fucili al bersaglio./ O mio cuore antico, topo/ solenne che non esci fuori…»

Ecco il secondo: «Come le mosche moribonde ai vetri/ scorrono ai cancelli i prigionieri,/ è sempre chiuso l’orizzonte. Ecco il terzo: Il balcone, la tempesta, mio padre un punto nero./ Mio padre un punto nero/ si mette al balcone/ a sentire la tempesta. Ecco il quarto: Ho le carni verdi del fanciullo battuto./ Vado coi quaderni al petto/ infilo parole come insetti,/ mi tengo la testa in altro mondo,/ non seguo più gli orari/ dell’alba e del tramonto. Ecco il quinto: Chi non dorme nel mare sonnolento/ delle ristoppie unite, sulle spoglie/ dei calanchi, gli abigeatari./ Scansàti alle tamerici,/ sulla sabbia accolta del fiume,/ gettano i mantelli neri,/ amano il loro mestiere, uomini sono gli abigeatari, spiriti pellegrini della notte, si cibano all’alba».

Questi sono versi che forse dicevano molto ai grandi sostenitori di Rocco Scotellaro. Per Carlo Levi e Manlio Rossi Doria era inevitabile leggere il poeta di Tricarico sotto la lente del loro grande magistero civile. Un magistero che non impedì a entrambi di vedere che Rocco non parlava solo della Lucania e del Mezzogiorno, ma delle angosce di una «pericolante giovinezza».

Non sono un critico letterario. Ho sempre letto gli autori per derubarli più che per capirli. Ora mi dispiace di non aver segnato in rosso la parola gabbia leggendo le poesie e quindi non posso citare i versi che per prima mi hanno indotto a questa suggestione kafkiana. Mi pare che in Rocco e Franz ci siano molte similitudini nel modo di sentire la lingua, di muoverla senza sollevarla, di tenerla nuda e aderente al mondo in cui si trova. Forse non conta molto il fatto che uno abbia fatto il sindaco e l’altro l’impiegato. A me sembrano gemelli. D’ora in avanti proverò a capire da dove viene questa sensazione, magari li leggerò in parallelo, come travi di ferro dello stesso binario.

Oggi ho letto poche pagine di Scotellaro. Stamattina ero dentro il dolore di sentirmi avvilito. Preferisco dirmi avvilito piuttosto che depresso. Non mi piace usare le parole che usano i medici. Oggi comunque ho preso una decisione. D’ora in poi cercherò di dare meno ascolto a chi mi critica e più a chi mi vuol bene. In effetti in questi anni ho rivolto la maggior parte delle mie attenzioni al sabotatore interno e a quelli esterni. Poco mi sono occupato del bene che mi voglio e del bene che mi vogliono altri. Ci sono giornate in cui almeno riusciamo a fissare dei propositi. Magari non li rispettiamo, ma per la prima volta ci sembra di sapere bene qual è la strada.

 

«Caro Franco, sono Daniele, di Lecce, e ci siamo incontrati quest’estate a Francavilla (ora mi trovo in provincia di Bergamo, per fortuna, per una supplenza). Approfitto della nota 5 del tuo Diario invernale per scrivere un pensiero che mi ronza in testa da tempo e che si è rafforzato dopo avere letto, di recente, Terracarne. Leggendo di Kafka e Scotellaro mi è venuto in mente il parallelismo che Cesare Garboli aveva pensato per accomunare Antonio Delfini e Kafka. Vado a memoria, ma nell’introduzione ai Diari di Einaudi dello scrittore modenese, Garboli parla della scrittura di Delfini come di una secrezione naturale, di quella bava che la lumaca lascia per terra al proprio passaggio. La scrittura, dunque, come qualcosa di assolutamente concreto e fisiologico, come tu fai da anni, è qualcosa di vivo e di pulsante, non di spontaneo e impressionista (per questo non esperibile da tutti), ma un lavorìo costante che conosce bene chi è poeta delle cose: come te e i grandi scrittori. E tutto questo alla faccia – ma senza risentimento – di quella cosiddetta «letteratura dell’inesperienza» che per alcuni autori e critici è il luogo che ci tocca abitare in questi nostri anni. Pertanto, ma è probabile che tu l’abbia già letto, concludo e ti suggerisco quelle bellissime pagine di Garboli su Delfini, proprio per provare a imbastire un discorso critico che leghi insieme Kafka, Scotellaro (che ho la colpa di aver letto poco) e ovviamente il tuo stesso lavoro. Ti continuo a leggere con grande ammirazione. Un caro saluto, Daniele. ps. non sarò a Lecce il 20 di dicembre perché ritorno a casa solo il 23».

 

Oggi il diario lascia la parola a un giovane del Sud che vive al Nord. Non mi ricordo la sua faccia, è una delle tante facce incontrate in questi mesi. Ora spero di ricordarmi il suo nome. Devo tenere fede al proposito di ieri: dare attenzione a chi c’è e non a chi non c’è, come ho fatto praticamente per tutta la mia vita.

Vengo da una notte in cui la solita cena masochista mi ha messo in un sonno di carta velina. Vediamo se da questa sera riuscirò ad arrivare al sonno senza zavorrarmi di cibo.

Ai tempi di Scotellaro non c’erano tutti questi dolciumi in giro.

Ieri sera cercavo Scotellaro nelle antologie letterarie del Novecento e non l’ho trovato. La porcheria della Gelmini, firmata da Napolitano, in cui la poesia del Sud viene cancellata dai libri di testo non è ancora stata tolta dai ministri, due, che si sono succeduti. La faccenda in fondo non ha scandalizzato quasi nessuno, a partire dagli insegnanti meridionali, che sono tanti sia al Nord che al Sud. Ora ho in faccia la luce di questo pallido pomeriggio dicembrino. Devo decidere se restare qui a scrivere o uscire dentro il mondo per cercare di sfogare in qualche modo il mio malessere. Io comunque Scotellaro lo avrei messo in qualunque antologia del Novecento. E invece la raccolta delle sue poesie, da tempo esaurita, non è stata più ristampata. Lui ha una lingua e un mondo. Il tempo si è incaricato di far sbiadire molto la lingua e il mondo di tanti poeti che in quelle antologie ci stanno. Non so che altro dire. Provo a guardare le foto che ho fatto stamattina a scuola, provo a scegliere quelle belle e domani le porto a scuola. C’erano occhi belli stamattina.

Ho scritto varie volte che la crisi, più che economica, è teologica. E se è teologica è più grave al Nord che al Sud. Man mano che il mondo si svuota di spirito, i posti che sembrano più resistere sono quelli che hanno ancora una bella luce. Per questo oggi c’è più forza nel Sud che nel Nord. Non se ne parla più in Italia di questa storia del Nord e del Sud, ma è una storia che c’è ancora. Il fatto è che con la fine della modernità questa storia è entrata in un’altra fase. Non c’è un’Italia che sta davanti e una che sta indietro. Scrivo queste cose con rabbia, oggi la mia vita è arrabbiata. Non ho lirismi, dolcezze. Non mi resta che alzarmi dalla sedia e uscire. Fuori c’è il Sud e io fino alla fine continuerò a guardarlo.

 

È morto a trent’anni e adesso pensiamo che sia morto giovanissimo, ma nel 1953 avere trent’anni significava già essere molto lontani dalla giovinezza. Dalla nascita alla morte di R. Scotellaro è il testo bellissimo scritto da Francesca Armento, la madre di Rocco. Non capisco perché non lo fanno leggere nelle scuole. Cosa pensano che sia la letteratura i funzionari ministeriali? La letteratura non è il buon italiano, ma è la lingua intonata. In questo caso c’è una donna che scrive la storia del figlio e il mistero è che ogni sillaba è bagnata nel dolore e nello stesso tempo è asciutta.

Ora guardo il libro illuminato dalla lampada. Il buio è arrivato e già tutto ben disteso intorno al libro e intorno alle mie ossa. Sto scrivendo dal fondo della mia solitudine. Io non sono generoso come Rocco. Se lo sono devo trovare ancora chi me lo racconta quello che sto offrendo al mondo. Quello che sento sempre è la mia insofferenza, la mia impazienza. E questa smania di dire tutto, di prendere le parole da ogni piega del mio corpo e portarle alla luce. Le parole che prendi dal corpo producono altre parole dentro il corpo, fanno altre pieghe. Alla fine la letteratura è un allevamento di pieghe, di crepe.

Mi sono segnato questa frase nel testo della madre di Rocco: «Lui era così affliggevole: voleva aiutare e dare soccorso a tutti, tanto che se avesse avuto proprietà per suo conto l’avrebbe consumata per i poveri. Allora non era come adesso, che il sindaco prende la paga: lui niente. Ma quel poco che io gli davo in tasca, lo dava ai poveri». A Tricarico ho parlato con Giuseppe Infantino, padre di Antonio, cent’anni da poco più d’un mese. Lui lo conosceva bene Rocco e mi ha raccontato la scena di un povero che si avvicina a Rocco e lui mette mano al portafoglio. Forse per questo la sua scrittura è povera, tutta scritta con le tasche vuote, senza vezzi, con un respiro fresco, pulito. Rocco non amava i preti, ma se la chiesa volesse fare un santo degno di questo nome, forse dovrebbe pensare a Scotellaro.