È la più feroce lotta politica vissuta dalla Turchia negli ultimi anni. Contrappone le due anime dell’islam. Ma non si non si combatte sulle piazze: il terreno di scontro sono i tribunali. Tutto è iniziato con la maxi inchiesta sulla corruzione che ha portato in cella i figli di tre ministri e lambito Bilal, rampollo del primo ministro Erdogan, screditando quest’ultimo e il suo partito, l’Akp, al potere dal 2002. A ordire l’indagine, secondo Erdogan, poliziotti e magistrati vicini a Hizmet, potente organizzazione civile-religiosa fondata dal predicatore Fetullah Gulen. Erdogan sostiene che stia costruendo uno stato nello stato, con propositi golpisti. È l’accusa sulla base della quale, a breve, potrebbe partire un’indagine contro il movimento di Gulen.

L’evento si lega alla purga di Erdogan, nelle scorse settimane, cotro poliziotti con funzioni inquirenti e magistrati, che hanno lavorato all’inchiesta sulla tangentopoli in casa Akp. Questo repulisti permette ora di allestire il possibile processo a Hizmet, che sa di resa dei conti. Oggi Erdogan e Gulen sono ai ferri corti, ma una volta erano alleati. Nel 2002 Hizmet mobilitò i suoi seguaci per mandare l’Akp al potere e intraprendere una nuova stagione politica, fondata su un rapporto equilibrato tra islam e democrazia, assecondato da riforme economiche profonde. Ma affinché questo progetto vincesse era necessario annichilire la casta militare, arbitro supremo del paese e guardiana dell’ideologia laicista coniata da Ataturk, fondatore della Turchia moderna.

L’obiettivo è stato raggiunto. Sia con prove di forza elettorali, sia con una crescita economica impetuosa, che ha accresciuto il consenso di Erdogan. Sia infine con i processi. Ergenekon, terminato lo scorso agosto, ha portato alla condanna di militari di alto rango. Compiuta questa missione, le due anime dell’islam turco hanno iniziato a confliggere. L’alleanza tattica s’è trasformata in sfida a campo aperto, stimolata anche dai fatti di Gezi Park, in cui Gulen, da anni vive in America, ha intravisto una deriva autocratica che, coniugata al fallimento della grandeur turca (vedi alle voci Egitto e Siria), potrebbe nuocere al paese.

Possibile dunque che abbia sollecitato i suoi referenti nella polizia e nella magistratura, esortandoli a frenare l’impeto di Erdogan. Perché, sebbene Gulen lo neghi, Hizmet in queste strutture è davvero influente. Come nei media e nella classe imprenditoriale. Molto di questo peso dipende dal fatto che i gulenisti controllano una larga parte delle scuole di preparazione all’accesso alle università. Oltre a essere un canale finanziario, servono a diffondere il verbo del movimento nella futura classe dirigente del paese. Non è un caso che nei mesi scorsi Erdogan, queste scuole, le abbia fatte chiudere. Il fronte di Gulen sta cercando di reagire, usando altrettanti strumenti giudiziari. Nelle scorse ore il predicatore ha querelato Erdogan, chiedendo un risarcimento di 100mila lire turche, poco più di 30mila euro. Somma simbolica: quello che conta è il gesto, accompagnato da un’iniziativa analoga da parte di imprenditori. Hanno citato in giudizio Erdogan, perché l’accusa di golpismo contro Hizmet sarebbe infamante. In soccorso di Gulen s’è mossa anche l’associazione dei giornalisti (di cui il capo di Hizmet è presidente onorario), denunciando la campagna d’odio contro il movimento e chiedendo al presidente Abdullah Gul di intervenire.

Sullo sfondo, le amministrative (marzo) e le presidenziali (agosto), con Erdogan che potrebbe candidarsi. Possibile che vinca, come che l’Akp si confermi alla guida delle principali città del paese. Non sarà una passeggiata: il consenso è in calo, l’economia rallenta e sono possibili ripercussioni elettorali. A Erdogan la denuncia del nemico interno serve a polarizzare l’elettorato e trattenere i voti in uscita. Se ci saranno.