«Benvenuto nel container 158». Miriana Halilovic sfoggia un sorriso che è un misto di giovialità e ironia prima di mostrare di cosa è composta la sua abitazione. In una baracca lunga sette metri e larga tre riescono a starci una cucina con un divano ad angolo, un minuscolo bagno con una doccia che fa tutt’uno con il lavandino mentre il water è ricavato da tutt’altra parte, una stanzetta in cui dorme suo marito con due figli e un’altra in cui stanno lei con le due gemelle che hanno pochi mesi di vita. «Sono nate a distanza di sei minuti l’una dall’altra», Maya e Ginevra, quest’ultima chiamata così in onore alla moglie di re Artù e amante di Lancillotto, simbolo dell’amor cortese medievale, «un personaggio che amo molto».

Nel container 158 del campo nomadi fatto costruire da Gianni Alemanno nell’agro romano di Salone si vive male. Molto male. Fa caldo d’estate, quando l’interno diventa rovente e l’unica salvezza è rifugiarsi all’aperto, sotto un ombrellone come in spiaggia ma senza il mare. D’inverno una stufetta elettrica riesce solo a mitigare l’umidità che sale dalla campagna. Ci sono i topi e un gatto furbo che non ci prova nemmeno a insidiarne l’egemonia, il tombino di una fogna a cielo aperto è stato coperto con un pezzo di legno per evitare che qualcuno possa esserne risucchiato. «Qui fa veramente schifo», dice Miriana senza usare giri di parole. Le epidemie dovute alle deficitarie condizioni igieniche sono all’ordine del giorno: l’epatite A, la scabbia, da ultima una forma particolarmente virulenta di herpes. E il degrado è diffuso: il campo si presenta apparentemente gestito e sorvegliato, ma basta girare l’angolo e ti trovi di fronte a una discarica a cielo aperto, tra rifiuti di ogni genere e carcasse di auto sventrate e date alle fiamme.

Miriana è il mio passe partout per il campo di Salone. L’avevo conosciuta alla “prima” di un documentario di Stefano Liberti ed Enrico Parenti intitolato proprio Container 158, lo scorso autunno al festival di Roma. Lei era la dirompente protagonista, una sorta di Mamma Roma dei nostri giorni. Meglio: Mamma Rom. I registi ne avevano seguito infatti la gravidanza, «volevano filmare persino il parto ma ho detto di no, perché è una cosa privata». Non ci fosse stata lei, sarebbe stato quasi impossibile visitare il villaggio-favela. Sarebbe stato necessario un permesso del Comune per avere il via libera della vigilanza. E, pur provando a infilarsi in uno dei varchi aperti lungo il perimetro del campo, la diffidenza nei confronti dello sconosciuto avrebbe prevalso sulla voglia di raccontare.

La vita agra in un container

Il container 158 è sul lato opposto rispetto all’ingresso, nell’area in cui vivono i profughi dalla Bosnia. Proseguendo a ritroso, si incontra la zona dei rumeni, poi quella dei montenegrini e dei kosovari: in tutto 1.200 persone, in gran parte fuggite dalle guerre balcaniche e impegnate in una convivenza spesso difficile.
Miriana è nata a Roma ed è cittadina italiana, ha studiato fino alla terza media e si è sposata a 17 anni con un ragazzo di appena un anno più grande arrivato all’età di sei dal Montenegro. I suoi genitori, racconta, avevano una bella casa in Bosnia di cui ora non rimane più nulla. Lei non ci è mai tornata, anche perché, dice, «non parlo nemmeno lo slavo, cosa ci vado a fare?» È a Salone da quattro anni, vittima come altri seimila rom del più imponente dei 450 sgomberi dell’era Alemanno, quello del Casilino 900, il più grande campo rom d’Europa, chiuso il 15 febbraio del 2010. I suoi genitori si sono spostati ad Arco di Travertino, un campo piccolo e, a quanto pare, di gran lunga preferibile al far west di Salone: «Lì sono pochi, si conoscono tutti», e la tranquillità è assicurata. Miriana rimpiange persino il Casilino 900: «Avevamo una baracca più grande, che ci eravamo costruiti con le nostre mani, io e mio marito. Avevamo speso 3.500 euro, trovati con grandi sacrifici, per comprare il legname, e avevamo impiegato tre mesi per costruirla». Le ruspe del Comune gliel’hanno abbattuta in pochi minuti. Ma il suo sogno è vivere in una casa vera, «non tanto per me quanto per i miei figli, che ho paura a far crescere in questo contesto».

Come darle torto? Nel campo l’atmosfera in questi giorni non è delle migliori. Due ragazzi di 19 anni sono morti in un tragico incidente stradale, un terzo, il conducente, si è invece salvato e ora dovrà rispondere davanti ai giudici di una sfilza impressionante di reati. Avevano rubato una macchina nel quartiere Prenestino, in piena notte, non si erano fermati a un posto di blocco della polizia e dopo poche centinaia di metri si erano schiantati a folle velocità contro un Suv, terminando la loro corsa sul muro di un sottopasso. Alcune chiazze di sangue macchiano ancora la parete.

La famiglia di uno dei due vive nella baraccopoli informale che si sta sviluppando attorno al campo come un’escrescenza maligna, in una roulotte senza acqua né corrente elettrica. Una sorta di favela nella favela. Hanno tutti un velo di tristezza negli sguardi. Il padre, Mirko, non riesce a farsi una ragione dell’accaduto. È convinto che delinquenti più scafati del figlio lo abbiano costretto a fare quello che non avrebbe dovuto, dice che vorrebbe incontrare l’uomo che era alla guida del fuoristrada per scusarsi con lui, ma non riesce a rintracciarlo.

Yul Brynner e la «romfobia»

Il problema, per Alexian Santino Spinelli, sono i campi rom e la sottocultura che producono, fatta di ghettizzazione e ignoranza. Spinelli è un personaggio istrionico: musicista, compositore, poeta, attore, saggista. Insegna all’Università di Chieti e forma i mediatori culturali rom nell’ambito di un progetto per il Consiglio d’Europa. Soprattutto, è un rom italiano. Ha scritto un bel libro sulla cultura del suo popolo, Rom, genti libere (Bcd editore), nel quale ritrae i grandi rom della storia: il presidente brasiliano Juscelino Kubitscheck de Oliveira, il beato Zeffirino, Michael Caine e Yul Brynner, Rita Haiworth e il Nobel per la medicina Schack August Steenberg Krogh. Parla come un torrente in piena. A una presentazione romana del suo libro, dice senza mezzi termini che i campi vanno rasi al suolo e se la prende con le associazioni che lucrano sull’assistenza ai rom. «La romfobia è dilagante», scrive nel suo libro, «molte famiglie vivono ghettizzate e discriminate, i bambini vengono spesso allontanati dalle scuole sotto diversi pretesti o muoiono per cause futili. Gli adulti hanno difficoltà nel trovare lavoro, nell’ottenere gli alloggi, nell’essere assistiti da un punto di vista sanitario». Come si fa a dire che sono loro a non volersi integrare?

Prendiamo l’esempio di Miriana. Il suo obiettivo è uscire dal campo, ma con le sue forze difficilmente ci riuscirà. Lei e il marito non hanno i soldi per pagare un regolare affitto, nessuno dà loro lavoro e il marito si guadagna la giornata, come tanti altri rom, riciclando il ferro e facendo traslochi. Miriana mostra il tesserino fornitogli dal Comune ai tempi di Alemanno. È plastificato, come una patente di guida. Sopra c’è scritto, in burocratese, «Documento autorizzativo stazionatorio temporaneo». Sono passati quattro anni, due sindaci, un paio di figli e lei staziona, temporaneamente autorizzata, ancora nel container 158, che nel frattempo comincia a sentire l’usura del tempo e della mancata manutenzione. Ha fatto richiesta per avere un alloggio popolare e da ultimo ha incontrato, in privato, il sindaco Ignazio Marino il quale, dice, ha promesso che cancellerà la circolare di Alemanno che assegna un punteggio inferiore ai rom che vivono nei campi attrezzati e chiuderà i ghetti.

Una soluzione auspicabile ma affatto scontata: la circolare che non riconosce lo stato di «disagio abitativo» ai rom dei campi è ancora lì, la graduatoria di chi avrebbe diritto all’abitazione non viene pubblicata, il Consiglio d’Europa e associazioni come Amnesty International e la 21 luglio fanno pressione sul sindaco perché chiuda i campi, e intanto il tempo passa e non accade nulla. A riprova delle difficoltà a chiudere la stagione dei campi rom, Amnesty segnala una delibera sull’«emergenza abitativa» della Giunta regionale guidata da Nicola Zingaretti, il 15 gennaio scorso. La Regione ha recuperato quasi 258 milioni mai spesi della ex Gescal su un conto corrente della Cassa Depositi e Prestiti e ne ha assegnato l’80% ad affrontare il problema casa. Saranno privilegiate, si legge, le persone ancora in attesa in base a un bando del 2000, nonché chi risiede in un Centro di assistenza alloggiativa temporanea o in immobili impropriamente adibiti ad abitazione. Dei rom che vivono in condizioni limite nei campi non si fa menzione. Nel frattempo, Marino un primo passo, simbolico, l’ha compiuto: dai documenti del Comune è cancellata la parola «nomadi».

Ferma meno di un treno su due

Prima di andare al campo, ho trascorso mezza giornata alla vicina stazione ferroviaria. È nuovissima, pulita, una voce registrata puntualmente riferisce dei treni in transito e di quelli in arrivo, gli schermi indicano il prossimo convoglio e il relativo orario, c’è ampia disponibilità di panchine e il sottopasso ha anche lo scivolo per i disabili. Però non c’è nessuno. La stazione di polizia è sbarrata, così come l’intero edificio rimesso a nuovo che dovrebbe ospitare la biglietteria. Il parcheggio è deserto e non esiste un bar o un’attività commerciale qualsivoglia. Gli unici avventori sono i rom del campo, che arrivano dal retro e attendono il trenino che li porta fino alla stazione Tiburtina. Scambio qualche parola con una donna, che mi spiega come il servizio è cancellato il sabato e la domenica. Miriana,più tardi mi dirà, ironizzandoci su, che spesso i treni tirano dritto. L’associazione 21 luglio stima che solo il 40% dei convogli si fermano a Salone. Gli altri evitano la stazione dei rom, costringendo questi ultimi a farsela a piedi fino alla stazione successiva, La Rustica, tre chilometri più in là.

La faccenda, come spesso accade in Italia, presenta aspetti paradossali. Lo scalo, la cui ristrutturazione è costata tre milioni di euro alla Rete ferroviaria italiana, è stato riaperto nel 2010 e potrebbe servire l’intera area industriale circostante e il polo tecnologico, decongestionando il traffico e rendendo più semplice la vita a molti lavoratori. Basterebbe che ci fosse un sistema di navette. Invece non è così. Piuttosto c’è chi, come il consigliere regionale dell’Idv Antonio Onorati, vorrebbe chiuderla per «motivi di sicurezza», come già era avvenuto nel 2002. Lo scorso 25 ottobre il politico dipietrista ha presentato una mozione «in difesa dei pendolari della Valle dell’Aniene» nella quale chiede la chiusura «temporanea» non solo della stazione di Salone ma persino di quella a La Rustica, in modo da isolare totalmente gli abitanti del campo e costringerli a farsi oltre quattro chilometri a piedi per andare alla farmacia più vicina, 10 chilometri e mezzo per recarsi in ospedale, e appena tre chilometri per andare a comprare il pane.

Il guardiano di Salone

Nel mondo rovesciato di Salone, può accadere che chiunque si aggiri per la stazione e non provenga dal campo rom sia guardato con sospetto. In base a questa logica vengo fermato da una persona che mi chiede perché mi trovi qui. Si chiama Enrico ed è l’unico, da queste parti, ad abitare in una casa vera. Il padre era ferroviere e lui ne ha ereditato la casa, proprio di fronte alla stazione. Lui, un ex impiegato statale, «programmatore di sistemi operativi», una volta andato in pensione ha deciso di trasferirsi in campagna, nonostante la sua abitazione confini con la favela. Prima che la giunta dell’allora sindaco Rutelli gli espropriasse tutto, i terreni su cui sorge il campo rom erano suoi: «Il progetto era di costruirci dei campi sportivi, solo dopo sono arrivati i rom». La casa si erge su una collinetta che domina la favela e la nuovissima stazione. Un tempo ci vivevano quattro famiglie, ora è rimasto solo lui. Verrebbe da definirlo “il guardiano di Salone”.

L’orto, a terrazze, recintato, scende verso una terra di nessuno che lo separa dal campo. È ingombra di carcasse di autovetture. «Il problema principale sono stati i roghi di spazzatura, quando il vento spirava in questa direzione l’aria diventava irrespirabile», racconta, «così un giorno sono andato giù e gli ho spiegato che ho mia madre, anziana, con la bombola d’ossigeno e che non potevano comportarsi così. Ora non bruciano più nulla». Enrico è sempre in allerta perché la microcriminalità è una piaga diffusa nel vicino campo. Ma alle volte la psicosi fa prendere degli abbagli: nel volgere di pochi minuti il mio interlocutore riceve una telefonata di un amico che gli segnala delle presenze sospette. Siamo io e il fotografo Andrea Sabbadini che mi accompagna. In realtà, la convivenza pare abbastanza tranquilla: «È accaduto qualche episodio spiacevole, capitava che i ragazzi venissero a raccogliere la frutta nel mio orto. Ma io gli ho detto: ve la porto io, non c’è bisogno che la rubiate. Ogni mese faccio un pacco con la frutta, le patate e scendo al campo. Conosco un po’ tutti, mi invitano persino ai matrimoni. In fondo, mi piace vivere un po’ zingaresco», ironizza Enrico, l’uomo che vive circondato dalla favela.

Via dal ghetto

Il problema è sempre lo stesso: i ghetti e la sottocultura che vi si produce, alimentata dall’ignoranza e dalla segregazione, per dirla con Santino Spinelli. Chi ha memoria dei Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola sa bene che nelle medesime condizioni, e spesso persino negli stessi luoghi dove oggi vivono i rom, un tempo c’erano gli italiani poveri che affluivano verso la capitale dall’Abruzzo, dalla Puglia, dalla Campania. Non basta cambiare le parole e trasformare il ghetto in «villaggio della solidarietà» per modificarne l’aspetto e migliorarne le condizioni di vita. Il risultato è che nessuno vuole abitare vicino a una favela, la gran parte dei rom si autoghettizza sempre più e l’incomunicabilità produce astio e pregiudizi. Una miscela esplosiva che rischia di sfociare in inutili guerre tra poveri e soprattutto di creare un pericoloso capro espiatorio su cui sfogare il malcontento sociale. Abbiamo già visto a cosa può portare tutto ciò in quel lungo “secolo breve” che è stato il Novecento. Bisognerebbe evitare di creare le condizioni perché alla storia possa essere concessa una chance di ripetersi.

Miriana mi offre un caffè turco. Dice di non avere rapporti con Enrico e che non gli sono piaciute alcune battute di quest’ultimo in Container 158. In particolare, contesta alcune affermazioni «razziste» di un amico di quest’ultimo, probabilmente quello che ha telefonato per segnalare la nostra presenza. In sala qualcuno aveva riso, «ma quando mi sono girata e li ho fulminati con gli occhi si sono zittiti. Non si può ridere di alcune battute». Quando si parla di zingari l’asticella della tolleranza verbale, chissà perché, si innalza sempre più ed è consentito fare delle affermazioni che in altri contesti nessuno si permetterebbe di fare senza provare vergogna. Miriana è giovane, socievole, vitale, una mamma rom poco disposta a tollerare le idiozie xenofobe. Il suo obiettivo è uscire dal campo e potersi costruire una vita normale, da comune cittadina italiana qual è. Il giorno in cui accadrà potremo forse considerarci un paese civile.