Che cos’è il Roman de la rose? Un sogno, ci risponde il primo autore, Guillaume de Lorris – il romanzo è trasmesso con due nomi –, un sogno d’amore, in un giardino pieno di incanti, destinato ad avverarsi: «Chiunque pensi o dica / che è follia e ingenuità / credere che i sogni si avverino, / chi la pensa così mi consideri pazzo, / quanto a me sono sicuro / che un sogno è preannuncio / di gioie e di dolori agli umani, / poiché molti sognano di notte / oscuramente molte cose / che poi si rivelano chiaramente». Per il secondo autore, Jean de Meun, che continua il romanzo a partire dal verso 4.029 e lo conclude al verso 21.750, è invece un’enciclopedia dell’amore – letteralmente uno «specchio degli amanti», un «miroër aus amoreus» –, un libro capace di rappresentare i labirinti della passione, gli slanci e le simulazioni del corteggiamento, le strategie della conquista, le gioie dell’amore che dura nel tempo. E anche di raccontare, in uno stile particolarissimo, ora realistico e popolare, ora aspramente satirico, ora patetico e sublime, i personaggi e i miti che dall’antichità fino al suo tempo – da Elena, Medea e Didone fino a Eloisa e Abelardo – affollano la scena dell’eros. Si deve a Jean de Meun e alla sua audace scommessa se il Roman de la rose diventa uno dei libri più diffusi e più amati di tutto il Medioevo.

L’opera, con il testo a fronte, esce ora nei «Millenni» – Guillaume de Lorris, Jean de Meun, Il romanzo della rosa (Einaudi, pp. 1092, euro  90.00) – a cura di Mariantonia Liborio e Silvia De Laude. Alla Liborio dobbiamo una sottile e partecipe Introduzione e la traduzione, condotta secondo la pratica della resa «alineare», che segue esattamente la serie dei versi dell’originale. Una traduzione precisa ed elegante, sempre affidabile e sicura: data l’ampiezza e la complessità del romanzo, davvero un magnifico «tour de force». De Laude ci dà il quadro dell’imponente tradizione del testo – sono sopravvissuti oltre trecento manoscritti – e un ricco e ben articolato apparato di note, dove sono richiamate le fonti – un folto intreccio, soprattutto per Jean de Meun – e dove si discutono diversi delicati problemi di interpretazione.

Nei primi quattromila versi del romanzo Guillaume de Lorris fa suggestivamente giocare, dietro il velo dell’allegoria – è questa la sua novità – i sentimenti e le emozioni che si danno battaglia nel cuore di due giovani e dà un nome a ciascuna di queste emozioni. Lo schema è quello del viaggio. Davanti al protagonista, partito all’alba in cerca di avventure, compare improvvisamente un giardino, circondato da alte mura decorate con preziose figure, con un cartiglio che ne rivela il nome: sono Odio, Slealtà, Villania, Avarizia, Invidia. Amante riesce a entrare nel giardino con l’aiuto di Oziosa, una bellissima fanciulla capace solo di adornarsi e di guardarsi nello specchio. Qui scopre un bocciolo di rosa, di cui si innamora, ma incontra anche la Fontana di Narciso, periglioso simbolo dell’amore di sé, dello scacco e della morte. Colpito dalle frecce di Amore – sono Bellezza, Semplicità, Franchezza, Bel Sembiante … –, il giovane cerca di avvicinarsi alla rosa, ma questa finisce prigioniera in un castello ben difeso: qui il romanzo si interrompe, sui melanconici lamenti di Amante per un amore che sembra impossibile. L’atmosfera di questa prima parte del romanzo, con la società del Giardino, immersa nel felice splendore della ricchezza e della gioia, ma anche irreale nel suo estetismo, è perfettamente colta, nell’Introduzione, dalla Liborio: Amante è in qualche modo esterno a questo luogo incantato, perché «guarda le meraviglie con l’occhio ingenuo dell’iniziato». Vive la sua storia d’amore «come in un esperimento in vitro, lontano dal mondo».

Con la continuazione di Jean de Meun tutto cambia, l’arte d’amare entra potentemente nel «mondo», e nelle stanze della filosofia. Se di Guillaume de Lorris non sappiamo nulla – c’è chi ha pensato che sia addirittura un nome inventato da Jean de Meun, a cui si dovrebbe quindi tutto il romanzo … –, sul secondo autore siamo bene informati: è un intellettuale che vive a Parigi, che conosce l’ambiente dell’università e le lotte filosofiche che l’animano, che è vicino all’aristotelismo radicale, che ha tradotto, dopo aver scritto il Roman de la rose (1275-1280), la Consolazione della filosofia di Boezio e l’epistolario di Eloisa e Abelardo. La sua cultura, la sua passione per il dibattito delle idee si riversano sui personaggi: Raison si ispira a Cicerone e a Boezio, Ami trova la sua guida nell’Ars amatoria di Ovidio. Non mancano i riferimenti alla cultura araba – si citano Avicenna, Averroè, Alhazen, al-Râzî … –, che attraverso la scuola dei traduttori di Toledo ha raggiunto Parigi. Un mito ritorna potentemente nel romanzo, rievocato ben cinque volte, quello dell’Età dell’oro: «Allora, ai tempi dei primi padri / e delle nostre prime madri, / come testimoniano i libri, / da cui impariamo le cose, / gli amori erano leali e puri, / senza avidità e senza rapine, / e l’età assolutamente preziosa. /… / Il miele sgocciolava dalle querce, / e se ne nutrivano in abbondanza, / e bevevano semplice acqua, / senza ricercare spezie né pimenti, / né mai bevevano del vino elaborato. / La terra allora non veniva arata; / ma, così come l’aveva dotata Dio, / la terra procurava da sola / ciò che sostentava tutti». Sul versante opposto si accampa la sinistra figura di Falso Sembiante, personificazione dell’ipocrisia e delle forze del male, capace, come Proteo, di prendere ogni forma: «Ora sono cavaliere, ora monaco, / ora sono un prelato, ora sono canonico, / ora sono chierico, in un altro momento prete, / ora sono studente, ora invece maestro, / ora castellano, ora forestiero: / in breve, sono di tutte le condizioni. / Ora sono di nuovo principe, ora paggio, / e conosco a memoria tutti i modi di parlare …». Falso Sembiante si rivelerà però una pedina indispensabile – il realismo e il pragmatismo di Jean de Meun sono senza confini – per mettere fuori combattimento Malabocca, che con le sue maldicenze è il principale ostacolo di Amante.

I discorsi dei personaggi – sono monologhi di migliaia di versi – rischierebbero di soffocare il lettore, e di annoiarlo, se il procedere di Jean de Meun non fosse così mobile e astuto, ricco di paragoni, di miti e di racconti. Anche miti, perché ritornano gli antichi dèi, con il regno di Saturno, con Giove e le sue conquiste di «civilisation», con gli amori di Marte, Venere e Vulcano. Parole e gesti costruiscono dei personaggi fortemente caratterizzati, che è difficile dimenticare. E il lettore, addentrandosi nel romanzo, si accorge che il «divagare» di Jean de Meun è un’arte, dove tout se tient, come nei grandi scrittori «divaganti», pensiamo a Montaigne, a Diderot. La storia non è stata avara con il Roman de la rose, sulla strada della sua fortuna incontriamo Dante – se è suo il Fiore, che riversa il romanzo, la seconda parte, in una catena di sonetti –, Petrarca, che nei Trionfi gareggia con il rivale francese, Chaucer, gli anatemi virtuosi e inefficaci di Christine de Pizan, l’ammirazione di Villon – che nel Testament rende omaggio al «noble Roumant de la Rose» – e di Rabelais.

L’Introduzione della Liborio si chiude con queste parole, forse con una sottile punta di rimpianto: «Il Roman de la rose, prima di diventare oggetto dello studio dei filologi e degli addetti ai lavori, era ancora parte viva della cultura». Con questa traduzione, con questo volume così sapientemente e amorosamente curato, potrebbe tornare a essere parte viva della nostra cultura.