Ci parliamo nel mezzo delle prove, dalla cornetta del telefono arriva quella concitazione che appartiene alla vigilia di ogni debutto. L’Aida di Roberta Torre va in scena stasera al Teatro Biondo di Palermo (fino al 2 marzo), in una rilettura che, come racconta la regista dall’opera di Verdi ha preso spunto per immergersi nella contemporaneità. Un mondo rovesciato, dove tutto si mischia, stupore fiabesco e irriverenza, come accade nei film di Roberta Torre, dai colori accesi dell’esordio Tano da morire, alla dolcezza feroce de I baci mai dati.
Racconta Torre: «L’invito del nuovo direttore del Biondo (Roberto Alajmo, ndr) mi ha dato la possibilità di sviluppare un’idea che avevo già in mente. Volevo mettere in scena qualcosa che parlasse dell’Italia oggi e dei suoi contorti meccanismi di potere». Così il libretto di Antonio Ghislanzoni viene riscritto dalla regista insieme a Igor Esposito, e dei protagonisti originari rimangono solo quelli principali; l’elemento divino sparisce mentre il gran sacerdote e il capo delle guardie si fondono in unica figura. Tutti i personaggi in scena sono uomini, e il triangolo amoroso tra Aida, Ramades e Amneris diviene un triangolo maschile e en travesti. Nel ruolo della principessa etiope, Aida, troviamo Ernesto Tomasini, star dei teatri londinesi, «con un’estensione vocale di 4 ottave» dice Roberta Torre. E poi Massimo Vinti in quello della figlia del re d’Egitto, Amneris, e Rocco Castracielo come Radames.
Uniche presenze femminili le tre «volpi» egiziane (Silvia Ajelli, Aurora Falcone, Giuditta Jesu) col compito di dare vita al coro.

Perché proprio «Aida»?

Uno dei temi che percorre l’opera è lo scontro tra ragioni del cuore e ragion di Stato, quella «ragione» che in Italia abbiamo perso. Parole come Stato, patria, collettività non hanno riferimenti da noi. Siamo senza appartenenza, senza un senso di coesione a valori collettivi. E la responsabilità è della nostra politica squalificata. In questa Aida riletta al presente ognuno si aggrappa dove può per non essere travolto. L’immagine è quella di una civiltà che sta cadendo a pezzi, in cui riecheggiano solo lontani echi dei fasti verdiani. Ma è la condizione che ci troviamo a vivere nel nostro paese.

Se dovessi dire a cosa somiglia la tua «Aida»?

Direi che visivamente l’immagine più vicina è quella di un circo. Con elementi del varità, del fumetto, del cartoon, del teatro di parola … La scrittura è molto importante nella messinscena. Insieme a Igor Esposito abbiamo cercato di inventare una lingua che determina la drammaturgia. Ramades parla con un gramelot fatto di elementi diversissimi.

L’idea di far intepretare i ruoli femminili a degli uomini sembra rimandare anche alla tradizione teatrale più antica, al teatro greco.

Mi interessava lavorare sui corpi e sulle voci maschili che possono essere al tempo stesso femminili, interrogando il mutamento del femminile e del maschile oggi.

Come avete lavorato sull’opera? In che modo avete scelto le parti su cui puntare?

Come dicevo la scrittura ha avuto un ruolo determinante. Scrittura che significa, appunto, l’invenzione di una lingua, e anche di un procedimento narrativo frammentato. Nel senso che dell’Aida abbiamo preso dei frammenti, non raccontiamo una storia con il classico inzio e fine, ma ci concentriamo su dei picchi emotivi che punteggiano la vicenda di Aida. Il domatore, che è anche il gran sacerdote, fa da elemento di unione tra i diversi passaggi. In questo senso è stata fondamentale la scelta della scenografia (di Roberto Crea). Come riferimento avevamo la Traviata degli Specchi (di Josef Svoboda, ndr), solo che qui, nell’Aida, lo specchio si è rotto, e il riflesso è solo di frammenti.