Un incrocio di storie di una comunità rurale che popola quel territorio che si estende oltre gli argini del fiume Secchia – nella Bassa modenese – tra l’inizio degli anni Trenta e la fine della Seconda Guerra Mondiale. È L’argine delle erbarie di Silvia Cavalieri, romanzo d’esordio edito da Solferino (pp. 384, euro 20) e già premiato al festival InQuiete vincitore del concorso letterario «LetteraFutura» (2023).

La prosa incantatoria di Cavalieri ci trasporta in luoghi che ci riportano alle atmosfere con cui il cinema neorealista catturava il Delta del Po, anche se qui a spiccare, fin dalle prime bellissime pagine, è il fiume Secchia, che ci accoglie imprevisto, con una piena travolgente. Il periodare, sostenuto da scelte lessicali puntuali, scandisce con volute ariose la coralità della narrazione – fatta di vicende che si intersecano, come quelle delle famiglie contadine del luogo, quelle dei pastori e degli zingari e delle relazioni che le legano.

Una fra tutte è quella delle erbarie, legata alle altre famiglie dal vincolo della vita: la necessità e la gratuità insieme. La Strulghina, la più anziana di quella generazione di erbarie, instilla il suo talento a Zaira, madre di Armida e poi a Liuba – in una genealogia di trasmissione delle sapienze femminili legate alla cura dei corpi umani e animali grazie alle qualità terapeutiche delle erbe autoctone, che si rinsalda con la condivisione di rituali antichi.

Attraverso le pagine del libro, sentiamo rincorrersi veloci gli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale e che traghettano l’Italia negli abusi dello squadrismo fascista a cui si oppone la Resistenza partigiana, che l’autrice riesce a raccontare dal suo interno, descrivendoci la generazione figlia di queste famiglie rurali – tramite ritratti di giovani compagni e compagne che hanno partecipato con inarrendevole coraggio e pervicacia alla lotta di Liberazione.

Silvia Cavalieri sarà ospite del Salone del libro di Torino domenica 12 (ore 16,30 Spazio Corriere della Sera, Pad. Oval).

Il suo romanzo si apre con la piena del fiume Secchia del 1934, in una frazione di tempo che lo vede trasformarsi e trasformare insieme al suo impeto le terre circostanti ma anche il destino di una delle protagoniste: Armida….
Il fiume Secchia è una presenza così decisiva da trasformarsi lui stesso in un personaggio. È il fiume che intaglia la morfologia del paesaggio, cangiante e vulnerabile, arrivando quasi a fagocitare tutta la terra, quando esonda; è il fiume che, per tanti versi, sembra forgiare la natura degli abitanti di quel paesaggio e le loro vicende. «Acque» è il titolo della prima delle tre parti che compongono il romanzo e come il «Sangue» che dà il titolo alla terza, è una sorta di vox media, che può assumere cioè una connotazione funesta oppure vitale, biofila. Anche la Busa di Bambèin, la Buca dei Bambini, che è un luogo cruciale per le erbarie e poi per i partigiani, è un luogo acquatico: una risorgiva d’origine misteriosa, abitata da presenze oscure ma non ostili, dove le persone spariscono ma dove anche vengono al mondo. E acque sono anche quelle che si rompono quando una donna dà alla luce una nuova creatura: infatti è proprio in questa prima parte che assistiamo alla nascita delle due protagoniste più piccole, Solidea e Liuba.

La coralità della storia raccontata ne «L’argine delle erbarie» ci regala il ritratto di una famiglia composta da donne meravigliose, legate non sempre davincoli di sangue ma piuttosto da un talento condiviso, quello della cura – grazie ai saperi tramandati e la conoscenza delle erbe. Quali sono le vie che l’hanno portata a tracciare i destini di questa genealogia femminile?
La scrittura di questo romanzo è partita da memorie familiari che ho raccolto soprattutto da mia zia, nata alla fine del 1934. Memorie che ho aggiunto ai numerosi racconti che fin da bambina avevo ascoltato, da mia nonna, mio padre, i miei zii, su queste terre e sulla loro gente. Mio padre ha sempre avuto un’avversione etica per le storie inventate e così da piccola, al posto delle fiabe, mi raccontava le sue avventure da bambino sotto l’argine di Secchia, in quella campagna dove ogni anno andavamo a raccogliere le pere. Nei racconti di mia zia, la cui infanzia è stata attraversata dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla Resistenza, la scena era per lo più occupata dagli uomini, perché le vicende più eclatanti sembravano riguardare sempre loro. Eppure dalle sue narrazioni e, ancora di più, nel suo modo di narrare trasparivano presenze femminili determinanti. Leggendo alcune pubblicazioni di storia locale mi sono allora imbattuta nella guaritrice di Cavezzo, che chiamavano la Strulghina (strulghèr in dialetto significa ‘strologare’, ‘escogitare’, ‘di poco far tanto’). Ho capito che era di queste donne che volevo parlare: delle guaritrici di campagna. Della loro azione secolare ai margini e a sostegno di comunità già, a loro volta, marginali. E così sono venute fuori la Strulghina, la Zaira, l’Armida e la Liuba.

La scrittura di questo suo primo romanzo evoca in certi passaggi la grazia ortesiana nei confronti delle «Piccole Persone». L’anatra della giovane Liuba, Seme, ricorda la cagnola Bella de «La Storia» di Morante, ma anche il cinghialetto descritto da Grazia Deledda nel racconto omonimo.
Nel mio romanzo il concetto di parentela è allargato e esonda dai vincoli umani, è vero. Liuba è una creatura in ascolto, protesa verso manifestazioni microscopiche, che sfuggono ai più. Nella sua relazione con Seme è evidente che non perde la naturalezza della connessione, a costo di praticare fino in fondo la sua eccentricità. Le «scampagnate» che Useppe si fa con Bella ne La Storia di Elsa Morante le ho amate molto – sono uno squarcio potente di libertà nell’esistenza compressa in cui la madre tenta di costringerlo, Bella prende il posto del fratello Nino nel far scorrazzare il bimbo nel mondo «oltre il cortile», nel portarlo all’avventura. E nel proteggerlo. Grazia Deledda è stata per me una rivelazione degli ultimi anni e Le piccole persone di Anna Maria Ortese, invece, l’ho letto come per educarmi. Per i bambini non c’è soluzione di continuità fra le creature. Liuba rappresenta questa permeabilità senza gerarchie. La sua Seme è anche un elemento di connessione con l’arcaico: l’anatra era un animale sacro nell’età del bronzo. Con la sua triplice facoltà di camminare, volare e nuotare l’anatra è terra, aria e acqua. Insieme.

Siamo negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale, in un climax deciso in cui la Storia incede. Come è riuscita ricostruire la memoria collettiva di una comunità nel prisma della Storia?
Sono nata a Modena nel 1973, in una famiglia comunista, con intorno un mondo fatto di gente che era riuscita a squassarsi via di dosso una dittatura feroce, vivendo nella prossimità di un epos per noi davvero inimmaginabile. Da bambina quel mondo mi sembrava universale e immutabile, ma ben presto mi accorsi che era solo uno dei mondi possibili, a sua volta in radicale trasformazione. Le facce, le voci, le musiche, i sapori, gli odori di quel mondo continuavano tuttavia a lavorarmi dentro. Ho avuto chiaro fin da subito che il mio romanzo non avrebbe avuto un’unica protagonista, perché ciò che mi premeva raccontare era soprattutto il cucirsi di questi fili a intessere una comunità, che volevo illuminare dalla parte di chi meno aveva avuto voce nella Storia: le donne delle classi subalterne.

La lotta partigiana anima la terza parte del suo libro, che si intitola «Sangue», attraverso le azioni di tre partigiane, che rivendicano il loro ruolo all’interno del movimento di Liberazione.
Le tre partigiane che racconto hanno origini diverse: Umbertina Smerieri, «la Marisa», fu una partigiana di Mirandola: un personaggio storico, che io mi sono limitata a romanzare. Rosina, «la Luisa», è anche lei ispirata a una persona reale, meno nota, e cioè l’unica partigiana donna della mia famiglia paterna, di cui ho ritrovato i documenti da «patriota» nel sito dei Partigiani d’Italia. Anita «la Bianca» invece è un personaggio fittizio costruito su un collage di varie vicende, in primis quella della partigiana reggiana Anita Malavasi, che ho potuto ascoltare prima nel documentario La mia bandiera di Giuliano Bugani e Salvo Lucchese e poi, più diffusamente, nella lunga intervista raccolta nello European Resistance Archive. Tutte e tre mi hanno dato l’opportunità di far risuonare la Resistenza femminile: l’adesione spontanea, la presa di coscienza politica, il brivido elettrizzante di una libertà mai nemmeno sognata prima, e poi la paura, il dolore, l’incombenza della morte.
Centrale nelle mie pagine è il tema della violenza sulle donne, declinata in forme molteplici, più o meno evidenti. Una violenza che non riguarda solo le partigiane. Contro di loro ho voluto mettere in scena gli abusi dei fascisti ma anche le meno scontate dinamiche sessiste così comuni fra le fila dei resistenti; e poi l’accenno di una presa di coscienza femminista che però non arriva a sbocciare, mortificata da una liberazione che non si tradurrà in rivoluzione né delle relazioni di classe né di quelle di genere.