Al ministro per le Riforme Maria Elena Boschi che lo invita a ritirare il suo ddl, Vannino Chiti risponde no grazie: «La Costituzione non si piega alle contingenze politiche del momento», è la replica secca. «Ritengo che nella situazione italiana, con la crisi di fiducia tra cittadini e istituzioni e il desiderio di partecipazione diretta, la soluzione preferibile per la riforma del parlamento sia una forte riduzione del numero dei deputati e dei senatori e un Senato eletto a suffragio universale». Tradotto, il ddl che porta la sua firma l’ex ministro non lo ritira.
Al di là dei toni gentili, in realtà è una risposta a brutto muso quella che Chiti invia alla titolare delle riforme. Al punto che in serata interviene direttamente Matteo Renzi: «Io non ci sto a perdere la faccia», dice il premier visibilmente irritato. «Alcuni senatori cercano visibilità, è comprensibile, ma la politica è un’altra cosa». Renzi parla alla sinistra del suo partito, ma non è solo a quella che deve stare attento. Il ddl dei ribelli pd, che contrariamente al testo del governo prevede l’elezione diretta del Senato da parte dei cittadini, sta diventando sempre più un ostacolo sulla strada delle riforme che il premier vorrebbe a tutti i costi concludere entro il 25 maggio. Intorno al testo, infatti, si sta coagulando una possibile maggioranza alternativa fatta da parte del Pd, M5S, ex grillini e, un po’ a sorpresa, Forza Italia. E anche senza arrivare agli estremi del senatore forzista Lucio Malan, che ieri ha definito il ddl Boschi «una cagata pazzesca», basta ascoltare le parole del capogruppo in commissione Affari costituzionali, Donato Bruno, per rendersene conto: «Sull’elettività del Senato credo che serva una nuova riflessione di Berlusconi e Renzi» ha spiegato l’esponente azzurro, lasciando intendere che il secondo incontro del Nazareno, tutto sommato, ormai può considerarsi superato.
Come se non bastasse, poi, ci si è messo anche Roberto Calderoli, relatore di minoranza in commissione Affari costituzionali. «Solo 3 disegni di legge sui 52 presentati prevedono un Senato non elettivo. Al momento quindi per il Senato non elettivo non mi pare che ci sia una maggioranza», ha detto il senatore leghista, esperto forse più di tutti delle regole che fanno funzionare palazzo Madama. Parole, le sue, che seppure non vogliono dire che alla fine il testo base su cui si comincerà a discutere prevederà l’elezione dei senatori da parte dei cittadini, sono però bastate per far suonare l’allarme rosso nel Pd. Al punto che la presidente della commissione, Anna Finocchiaro, si è sentita in dovere di alzare qualche barricata a difesa del governo: «E’ presto per dire che sul Senato elettivo c’è una posizione maggioritaria in commissione, perché non si sono espressi ancora tutti i gruppi», ha detto l’esponente Pd.
Giovedì Silvio Berlusconi parteciperà a «Porta a Porta». La presenza nella trasmissione di Bruno Vespa sarà l’avvio di una campagna mediatica che lo porterà anche in altri programmi, ed è scontato che in quell’occasione l’ex cavaliere oltre a parlare dell’affidamento ai servizi sociali pronuncerà anche una parola definitiva sulle riforme. Nel frattempo l’impressione è che si navighi a vista, con le riforme che rischiano di trasformarsi sempre più in una palude per Renzi e Boschi. «Fare il ministro significa avere l’umiltà di stare ad ascoltare non solo il presidente del consiglio, ma anche i parlamentari», ha fatto notare ad esempio Calderoli invitando la Boschi ad assistere ai lavori della commissione.
Da parte loro, i grillini sono tornati anche ieri ad offrire il oro appoggio al ddl Chiti. Un po’ per convinzione, il M5S ha presentato un suo disegno di legge in alcuni punti simile a quello della sinistra pd, un po’ nella speranza di riuscire finalmente a mettere tra le ruote del governo il bastone giusto per farlo inciampare, andando così alle elezioni come Grillo auspica da mesi. Nel frattempo si appoggia il ddl Chiti: «Una buona proposta», è tornato a definirlo il capogruppo Maurizio Buccarella, Che ha anche proposto una serie di «miglioramenti» come l’inserimento dei referendum propositivi senza quorum e dell’istituto del «recal», vale a dire la possibilità per gli elettori di un collegio di sostituire un parlamentare in corso di legislatura.