Dopo una campagna elettorale condotta a disputarsi Enrico Berlinguer, per analizzare i risultati bisogna resuscitare Amintore Fanfani. Cerchiamo allora Marco Follini, ex giovane democristiano (moroteo), centrista negli anni dell’alleanza con Berlusconi e infine, dopo un rapido passaggio nel Pd, osservatore esterno e autore di diversi saggi sulla politica (soprattutto della Dc). Ha l’esperienza e il linguaggio giusti per decifrare il paragone ricorrente tra il Pd del modernissimo rottamatore e la Balena Bianca degli anni ’50. «Parlando con il manifesto – risponde subito Follini – mi viene da dire che morirete democristiani. Lo dico scherzando, ma intendo che quel mezzo secolo di storia non si cancella tanto facilmente, perché non fu il risultato di circostanze particolari né di una imposizione, ma del modo in cui tanti italiani vivevano la democrazia».

Un momento, questo revival democristiano si fonda su una percentuale – il 40,81% – che il Pd ha raggiunto grazie a un’astensione altissima e in elezioni europee. Non si starà esagerando?

È sempre prudente non trarre conclusioni affrettate, ma credo che il riferimento regga: siamo destinati a ripeterci. Non so quanto Renzi sia democristiano, né quanto si senta democristiano o se gli faccia piacere questo paragone che va per la maggiore. Quello che so – e che questo risultato elettorale conferma – è che siamo fondamentalmente un paese democristiano. Cioè un paese che affida al governo la gestione della complessità. Il nostro destino non è quello di giocare destra contro sinistra, l’un contro l’altra armate con toni solo leggermente meno accesi di quelli che abbiamo sentito in questa campagna elettorale. Il nostro destino è riconoscerci in una proposta di governo che sia inclusiva e capace anche di, come dire, ospitare una contraddizione.

E il bipolarismo? E il ventennio berlusconiano cos’era, un’altra parentesi della storia?

Tutti giudichiamo gli ultimi vent’anni insoddisfacenti, perché sono stati vent’anni di parzialità. Naturalmente uno può essere più o meno affezionato all’una o all’altra di queste parzialità, ma nessuna delle risposte che sono state date ha messo radici. Neppure quella di Berlusconi, che sulla carta aveva il consenso più largo. Quanto al bipolarismo, ammesso che fosse la nostra prospettiva, ormai è alle nostre spalle. Non solo in Italia ma in tutta Europa. Andiamo verso partiti e governi che siano inclusivi, che tengano conto di diversi punti di vista. Io ho sempre pensato che il governo sia fondamentalmente la ricerca di un equilibrio, la composizione dei conflitti. Il risultato elettorale va in questa direzione. Al voto per Renzi concorre l’elettore fino a poco fa berlusconiano e l’elettore di sinistra che appoggia la politica economica della Cgil. In questa complessità c’è la cifra dell’eterno governo italiano.

Altro che cambiamo verso. Ma è proprio così? Renzi è capace di richiamare all’ordine le minoranze. Ha stile brusco, non sopisce né tronca.

Credo che sia ancora alla ricerca dell’interpretazione più efficace di sé. La prima occasione gliela offre proprio questo risultato elettorale. Un risultato che per un verso esprime una grande domanda di stabilità, di ordine, non arrivo a dire di conservazione, e per un verso riecheggia dinamismo, innovazione, modernità. Starà a Renzi trovare l’equilibrio, non mi faccia fare previsioni sul risultato. Ma di una cosa sono sicuro: chiunque si trovi alla testa di questo paese deve cercare un equilibrio, venire a capo della contraddizione tra stabilità e cambiamento.

Oppure si può modernizzare solo in superfice, fermarsi agli slogan e alla demagogia: così contraddizione non c’è.

In questi vent’anni la giaculatoria sul cambiamento l’ho sentita recitare un po’ da tutti e un po’ troppo, per questo penso che il tema di oggi non sia mettersi a correre, ma scegliere una rotta. Poi quella rotta la si può percorrere anche con passo più lento. Qualche volta in politica la lentezza può essere una virtù. È il mio punto di vista di democristiano antico. Sento anch’io la domanda forte di cambiamento che viene dal paese, ma nessun cambiamento si afferma se non riesce a convincere del suo valore anche la parte più conservatrice dell’opinione pubblica.

Pensa anche lei che il Pd sia ormai un partito di centro che guarda a sinistra, come la Dc?

Meglio sarebbe dire che è un partito di sinistra che guarda al centro…

Con il 40% più che guardarlo lo occupa.

Si guadagna il favore di una parte dell’elettorato che canonicamente si sarebbe detto centrista, tant’è che le forze di centro hanno un magro risultato. Ma anche tanti elettori del centrodestra votano per il Pd, segno che il centrodestra oggi non ha uno spazio per affermare le proprie ragioni fuori dalla contesa di maggioranza. È una strada molti simile a quelle che sono state percorse nel cinquantennio democristiano.

Lungo questa via, però, i popolari del Pd si sono sempre sentiti come ospiti in una casa di ex comunisti.

Certo è un paradosso. Come lo è il fatto che proprio nel momento in cui il Pd sceglie di affiliarsi al socialismo europeo, nei commenti del post voto venga descritto come una sorta di riedizione della Dc. Ma la vita politica italiana è paradossale per natura. Si pretende spesso di semplificarla e affilarla come la lama di un coltello, ma poi si scopre che il coltello non taglia.

Chi in questi anni ha esaltato il Pd come partito leggero, del leader e delle primarie, lo riscopre adesso come «partito del paese». Del paese va bene, sempre ricordandosi dell’astensionismo, ma nel frattempo non avevamo rottamato il partito?

Per carità, nulla è lineare e la storia non si ripete. Però mi pare ragionevole che il paragone venga fatto con la Dc di Fanfani. Cioè la Dc che aveva la leadership più forte, il segretario del partito era contemporaneamente presidente del Consiglio e poi anche ministro degli esteri, quel Fanfani si trovava alla vigilia della Domus Mariae, cioè dell’avvento dei dorotei. Sui paragoni personali sospendiamo il giudizio. Sul metodo mi sento di dire che questo resta un paese fondamentalmente democristiano, nell’anima e nella tecnica politica. Quale che sia la guida prescelta, dovrà sempre organizzare un compromesso tra opinioni che in altri contesti possono affrontarsi l’una contro l’altra, sino alle estreme conseguenze. Ma che da noi possono volteggiare solo sapendo di avere, giù in basso, la rete di sicurezza di una qualche condivisione.