La Commissione Europea ufficializzerà il via libera a uno sconto sulla correzione del bilancio pubblico italiano pari a 14 miliardi per il 2016. È la cosiddetta «flessibilità» sulla quale il governo Renzi si è giocato tutto in questi mesi, facendo appello a tre eventi eccezionali: l’emergenza profughi che comporta spese extra per l’«accoglienza»; l’emergenza terrorismo che lo ha spinto a estendere la cabala renziana del bonus 80 euro alle forze dell’ordine e a spendere un miliardo per la «cultura»; la deflazione e la crescita insufficiente.

La flessibilità nella programmazione economico-finanziaria sarà pari allo 0,85% del Pil così distinti: l’assicurazione della clausola per le riforme strutturali costerà lo 0,5% del Pil, lo 0,25% per la clausola per gli investimenti, 0,04% per l’aumento dei costi per affrontare i flussi di migranti, 0,06% per i costi straordinari direttamente legati alla situazione di sicurezza.

«Quella sulla flessibilità è una battaglia vinta – ha detto Renzi ieri a Bari dove ha firmato un Patto per lo sviluppo con un investimento di 230 milioni di euro – Oggi l’Europa ci riconosce un ulteriore elemento di flessibilità. È ancora meno di quello che avrei voluto anche se è un accordo significativo e importante. Non è la soluzione di tutti i mali ma è l’affermazione di un principio».

La battaglia non è stata vinta e Renzi gode solo di una tregua. La conferma è venuta ieri dal carteggio tra il ministro Piercarlo Padoan, il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici. I responsabili comunitari non hanno nascosto le criticità della «Renzinomics» basata su bonus elettorali per stimolare la crescita dei consumi interni e hanno sottolineato che quella europea è una concessione in cambio delle fatidiche «riforme strutturali».

Nel 2017 è «essenziale» che il rapporto tra il deficit e il Pil nominale sia dell’1,8% come annunciato nel Documento di economia e finanza (Def) e non dell’1,9% come previsto invece dalla Commissione. Da Bruxelles vogliono impegni precisi, ma Palazzo Chigi non vuole mettere nero su bianco nulla di più di quanto già scritto nel Def. Differenze minimali sulle quali, almeno quest’anno, la Commissione sembra decisa a sorvolare, concedendo la clausola dello 0,80% del Pil invece di un massimo di 0,75% in un anno.

Se così non fosse i conti peggiorerebbero subito di oltre mezzo punto e il governo sarebbe costretto a una manovra correttiva già nel 2016. Il patto dunque è il seguente: Bruxelles mostra benevolenza con Renzi nel 2016, ma chiede nel 2017 un impegno da 2,5 a 3,4 miliardi per raggiungere l’1,8% di deficit/pil. Non è una richiesta specifica di una manovra, ma la promessa di rispettare i patti l’anno prossimo. In caso di mancato raggiungimento degli obiettivi c’è lo spettro dell’aumento dell’Iva da gennaio 2017: 15,4 miliardi. Se Renzi non rispetta i parametri, scatta la tagliola.

Il vero problema è il debito pubblico. Dopo la Grecia (180% sul Pil), l’Italia è il paese che fa peggio: 132,7% sul Pil. Dal 2016 dovrebbe entrare in vigore il taglio dello 0,5% sul Pil annuo per i prossimi venti. Bisogna arrivare al 60% sul Pil. Una regola sulla quale, da anni, tutti fanno gli gnorri sia a Roma che a Bruxelles. La via diplomatica sembra al momento avere depotenziato uno degli imperativi tremendi del Fiscal Compact. Ma c’è sempre qualcuno a ricordarlo: il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. L’interesse del falco tedesco rispetto all’Italia è stato confermato nelle ultime settimane attraverso visite e interviste sui giornali italiani.

In piena campagna elettorale per una poco probabile elezione al trono della Bce al posto di Mario Draghi (nel 2019), Weidmann non perde l’occasione di ricordare alle «cicale» italiane che «non si cresce con il debito – ha detto – Sono scettico verso chi pensa che il problema del debito si possa affrontare facendo altri debiti o che il deficit sia la via giusta per favorire la crescita». L’opposto di quello che sta facendo Renzi, il quale conta però su un patto politico con Jean-Claude Juncher e la sua commissione europea e sulla copertura del «quantitative easing» di Mario Draghi.

Il tarlo però esiste e spinge il governo ad accelerare sulle privatizzazioni delle Ferrovie dello Stato, dell’Enav e delle dismissioni immobiliari per assicurare il fatidico taglio dello 0,5% del debito. Molta attenzione è prestata anche ai decreti attuativi della riforma Madia della P.A. e alla riforma del catasto, vere ossessioni per i custodi dell’austerità Ue. «Dall’Ue solo un piatto di lenticchie» sostiene Renato Brunetta (Forza Italia). «Occorreranno robuste correzioni dei conti pubblici» afferma Arturo Scotto (Sinistra italiana). «La manovra lacrime e sangue è solo rimandata: nel 2017 e nel 2018 l’Italia dovrà infatti ridurre il disavanzo di oltre lo 0,5%» sostengono i deputati Cinque Stelle.