«Facciamo appello a tutto il sistema manifatturiero italiano, alle cittadine e ai cittadini, a senatrici e senatori e a tutte le istituzioni, oltre alle aziende coinvolte con le filiere produttive collegate a Rana Plaza, affinché si attivino non solo in un’opera di sensibilizzazione e sostegno verso le vittime di Rana Plaza, ma contribuendo al Fondo internazionale negoziato e gestito direttamente dall’llo che consente alle imprese e a chiunque desideri, di contribuire alla raccolta fondi in favore delle vittime di Rana Plaza, il palazzo di otto piani costruito senza il rispetto degli standard adeguati di sicurezza che, in Bangladesh, ospitava 5 fabbriche tessili e che è costato la vita a 1138 persone». Firmato: Valeria Fedeli, Luigi Manconi.

Alla famiglia Benetton, uno degli imperi del tessile italiano che con Manifattura Corona e Yes Zee lavoravano con le fabbriche del Rana Plaza, devono essere fischiate le orecchie. Anche perché si sono ben guardate dal contribuire al Fondo cui allude l’appello-dichiarazione della vicepresidente del Senato e del presidente della Commissione Diritti Umani, diffuso dopo l’incontro con gli attivisti della campagna internazionale Clean Clothes (in Italia Abiti Puliti) e con Shila Begum, la lavoratrice bangladese che oggi scrive sul manifesto la sua rabbia per essersi sì salvata dalla morte, ma anche per non aver ancora ricevuto alcun risarcimento. Forse a Benetton le orecchie fischiano già da un pezzo perché la Campagna ha invitato i responsabili dell’azienda di Treviso a partecipare alla tappa del tour europeo che ieri era a Roma ma oggi è nella città che ospita il marchio noto in tutto il mondo grazie alle immagini shock create dalla genialità artistica di Oliviero Toscani. Allo shock del Rana Plaza Benetton ha però risposto solo a metà. Ha firmato l’accordo che prevede controlli rigorosi nelle fabbriche del tessile del Bangladesh ma per ora non ha ancora aperto i forzieri della multinazionale per alimentare il Fondo risarcimenti.

Il tour europeo ha avuto il suo battesimo italiano a Ravenna sabato scorso, con un seminario organizzato dal coordinamento «Il Sud siamo noi» e dal locale circolo de il manifesto, il giornale italiano che si è più occupato, da quel 24 aprile 2013, di quanto emerse, con i cadaveri di oltre mille vittime, dalle macerie del Rana Plaza. Dove i lavoratori erano del Bangladesh ma i marchi erano europei e americani. Italiani anche. Ad animare il seminario di Ravenna, la conferenza stampa a Roma con Shila, gli incontri istituzionali con Laura Boldrini, la sottosegretario Teresa Bellanova e la Commissione diritti umani del senato, l’instancabile Deborah Lucchetti e il manipolo di attivisti che anima la sezione italiana della Campagna. A cui va il merito di aver fatto fischiare le orecchie a Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee scoprendone gli altarini asiatici. Ora però bisogna vedere se Benetton accetterà la sfida, partecipando all’incontro pubblico di stasera alle 21 nella Casa dei Beni Comuni di Treviso. Con la delegazione dei lavoratori e del sindacato bangladese e la campagna Abiti Puliti, ci saranno diverse organizzazioni del Veneto e il sociologo Devi Sacchetto dell’Università di Padova. Benetton ci sarà?

Lucchetti spiega che il Rana Plaza Donors Trust Fund, fondo internazionale negoziato e gestito dall’Ufficio del lavoro dell’’Onu di Ginevra (Ilo), consente alle imprese «e a chiunque lo desideri», di fare donazioni. «È un avvenimento di portata storica, che consentirebbe alle migliaia di vittime di ricevere un equo risarcimento per la perdita di reddito e per le cure mediche. In tempi certi. Occorrono – ricorda Lucchetti – 40 milioni di dollari e nessuna impresa italiana ha finora deciso di contribuire».

La campagna mondiale Pay Up!, lanciata dalla Clean Clothes Campaign con i lavoratori del Bangladesh e i sindacati locali e internazionali, chiede ai marchi della moda che si rifornivano (e continuano a rifornirsi) nel Paese di fare subito i versamenti necessari a raggiungere i 40 milioni di dollari previsti dal Trust Fund. Il Fondo infatti raccoglie i contributi che serviranno per risarcire tutte le vittime (solo i feriti sono stati 2mila), come stabilito da un accordo – il Rana Plaza Arrangement – siglato sotto l’egida dell’Ilo. Ma non tutti hanno dato retta alla Clean Clothes Campaign e all’Ilo. Qualcuno invece lo ha fatto.

Da ieri le famiglie delle 1.138 persone uccise dal crollo e i sopravvissuti rimasti inabili al lavoro possono inviare le domande per il risarcimento per perdita di reddito e cure mediche, importi calcolati secondo quanto previsto dall’Arrangement. Inizialmente tutti dovrebbero ricevere un anticipo di 50mila taka (circa 450 euro per un totale di 2 milioni di dollari) entro il primo anniversario del 24 aprile. Nove marchi, fra cui Mango, C & A e Primark hanno già pagato. Quest’ultimo ha dato un primo contributo al Fondo di 1 milione di dollari ma, una volta calcolati i pagamenti da fare, ci si attende un saldo finale vicino ai 9 milioni. Molti altri campioni del tessile o della distribuzione, come Benetton, Childrens Place, Adler o Auchan, invece latitano. Una stima di quanto dovrebbe Benetton si aggira sui 5 milioni. Durante l’audizione in Commissione, Manconi ha detto che si potrebbe pensare a un’incontro con i marchi che accettassero di venire in parlamento ad affrontare l’argomento. Ma se stasera a Treviso Benetton scegliesse la strada della trasparenza e del confronto (va ricordato che inizialmente negò di aver avuto affari in corso con le ditte del Rana Plaza), la cosa sarebbe ancora più forte che un’audizione in parlamento. La piazza della polis per dire che l’assegno è pronto varrebbe cento immagini shock del buon Toscani.

*Lettera22