Fuorilegge in patria, premiati come modello di innovazione politica e culturale in Europa. È in questa condizione di apolidia che vive il teatro Valle a Roma, occupato da quasi tre anni sull’onda della vittoria al referendum sull’acqua, che martedì 18 marzo ritirerà dalle mani della principessa d’Olanda Margriet il premio European Cultural Foundation a lei dedicato. L’ultimo dei riconoscimenti ricevuti dal Valle, insieme al premio Ubu speciale nel 2011 e, da ultimo, il premio Riccione. Fondazione, questo è il concetto indigesto, ad oggi, per il comune di Roma, per il Corriere della Sera o Il Messaggero o per il presidente del Consiglio Matteo Renzi che al Valle non ha mai messo piede, ma ha detto di preferirgli il modello pubblico-privato, tra comune e banche, del teatro Pergola di Firenze. Nello stato di eccezione in cui vivono, gli apolidi del Valle hanno identificato un’alternativa ingegnosa, e praticabile, al modello misto tipico dello Stato regolatore. L’entità che valuta le offerte di soggetti privati – o imprese – che competono sul mercato, ai quali lo Stato cede l’uso dei suoi beni o servizi. Lo Statuto della fondazione Valle, sottoscritto da più di 6 mila cittadini che hanno versato un capitale di 130 mila euro (a cui si aggiungono 120 mila euro in opere donate da artisti di tutto il mondo), è il contrario di questo modello.

Questa alternativa è stata sviscerata ieri in una tavola rotonda al teatro Valle dal gotha del diritto civile e amministrativo italiano: Ugo Mattei, Stefano Rodotà, Pietro Rescigno, tra gli altri. Seduto in platea c’era anche il notaio romano Gennaro Mariconda che ha legittimato l’esistenza della «Fondazione teatro Valle bene comune» la cui personalità giuridica non è stata però riconosciuta dal Prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro. Questo rifiuto ha rinfocolato una campagna stampa particolarmente aggressiva contro l’«illegalità» dell’occupazione, dando la stura anche all’intervento di Renzi, favorevole ad un «ritorno all’ordine» e all’egemonia del senso comune. Tuttavia, il senso comune è fallace, come a suo tempo ha sostenuto Gramsci. Infatti, per Mariconda, come per Rescigno, il Prefetto non ha negato il valore sociale dell’occupazione, ma ha stigmatizzato l’idea di appoggiare altre occupazioni, non conformi alla «legge». Sullo statuto, il Prefetto non ha fatto osservazioni. «Quindi ha accettato le regole della fondazione – ha detto Mariconda – l’idea della turnarietà delle cariche artistiche e amministrative, l’assemblea che detiene il potere di decisione». Per il notaio la fondazione del Valle non è privatistica (come per una banca, un partito, una public company) perché non segue il modello del «patrimonio che diventa soggetto». Il Valle, invece, è un’associazione politica che diventa soggetto istituzionale. Un soggetto che conta su migliaia di fondatori, non su un’operazione di mercato. La soluzione starebbe in un «compromesso» con il comune di Roma titolare di una «convenzione» con il Ministero dei Beni Culturali (Mibact), oggi guidato da Dario Franceschini. La convenzione, stipulata tre anni fa al momento della cancellazione dell’Eti, non è mai stata attivata e oggi il Valle sarebbe tornato al Mibact. Il Comune di Roma potrebbe riattivarla. Oppure la fondazione costituenda potrebbe negoziare con il Mibact. Il percorso è difficile. «Ma questo modello rende inutile il ricorso ad un bando di assegnazione – ha detto Mattei – perché delinea una struttura inclusiva dove si può partecipare ad ogni livello». Un modello applicato recentemente dal comune di Bologna, ha ricordato Gregorio Arena del laboratorio per la sussidiarietà Lapsus. Si tratta di un regolamento che stabilisce un patto di collaborazione tra istituzioni e cittadini, caratterizzato dalla trasparenza. Un’ipotesi che potrebbe essere considerata alla luce di una disponibilità al dialogo dell’assessore alla cultura Flavia Barca che, dopo mesi di silenzi e incertezze, starebbe consultando esperti e avrebbe inviato una lettera all’assemblea del Valle. Per i «comunardi» la trattativa è chiara, anche perché vale per altre esperienze culturali a Roma, e altrove: riduzione del ruolo debordante della politica istituzionale nella gestione degli eventi culturali, superamento del sistema dei bandi, gestione condivisa e non corporativa di un «bene comune». In un paese dove si privatizza tutto, l’autonomia di decine di lavoratori dello spettacolo desta produce inquietudine. Loro propongono un’utopia concreta: amministrare in maniera condivisa un bene. Al Valle si vuole condividere un potere comune e si collabora alla risoluzione di problemi che non sono solo amministrativi, ma economici, lavorativi, politici, personali. «Chi ricopre incarichi istituzionali deve rispettare questa innovazione culturale – ha detto Rodotà – La sua ambizione è riprendere il filo di una stagione riformistica iniziata con lo statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, la legge Basaglia. Il Valle non è riducibile all’illegalità di un’occupazione, ma recupera modelli giuridici come la fondazione e li rinnova politicamente».